Noi, pescatori di spazzatura: la raccolta differenziata che può salvare il mare

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Bottiglie e barattoli. Sacchetti e flaconi. Riportati a galla insieme al pesce dai pescatori livornesi, vengono trasportati a terra, lavorati e riciclati. Riparte il progetto Arcipelago pulito (Foto di Laura Lezza)

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Spirobranchi. Serpulidi. Salmacine. E poi telline, ostriche, conchiglie di ogni tipo. E alghe a volontà. Sono alcuni degli organismi marini che hanno trovato casa nei rifiuti depositati sui fondali del Tirreno. Hanno colonizzato cassette della frutta e flaconi di detersivo, torce da sub e tubi di dentifricio, bamboline e palloni da calcio. Fino al giorno in cui i pescatori che partecipavano alla campagna Arcipelago Pulito della Regione Toscana li hanno catturati con le loro reti a strascico, riportati a galla e trasportati sulla terraferma.

Un’idea solo apparentemente semplice - chiedere ai pescatori di non ributtare in acqua i rifiuti che trovano in mezzo al pesce - che per essere realizzata ha richiesto uno sforzo collettivo di enti pubblici (Regione, Ministero dell’Ambiente, Capitaneria di Porto) e di privati, dalla Revet di Pontedera che ha smaltito i rifiuti all’Unicoop, che con i fondi per il pagamento dei sacchetti biodegradabili ha finanziato un piccolo “premio” per i pescatori. L’ispirazione di questa iniziativa rimanda ad Angelo Vassallo, il sindaco ecologista di Pollina nel Cilento, ucciso dalla camorra nel 2010 proprio per il suo impegno a favore dell’ambiente. «Venni a sapere dal fratello che Vassallo aveva iniziato a lavorare con i pescatori perché portassero a terra i rifiuti che tiravano in barca», racconta Vittorio Bugli, assessore alla presidenza della Regione Toscana e promotore del progetto. «Da lì è nata quest’idea, che ha trovato la collaborazione entusiasta di tutti quelli cui ho chiesto di partecipare».
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L’immagine di partenza di questa storia in realtà è agghiacciante. Se si è pensato di affidare ai pescatori un ruolo importante nel recupero dei rifiuti dispersi in mare è perché il pesce che arriva sulle nostre tavole esce dall’acqua circondato dai rifiuti. Se ce ne rendessimo conto, sarebbe questa forse un’idea abbastanza forte da rispondere alla sfida lanciata da Jonathan Safran Foer nel suo ultimo libro, “Possiamo salvare il mondo, prima di cena” (Guanda). In quelle pagine lo scrittore americano denuncia che è difficile trovare una “buona storia” che racconti il cambiamento climatico, che faccia capire al lettore che quello che succede «laggiù» - gli oceani, l’Artico, i fiumi asiatici, le megalopoli cinesi, i deserti africani - riguarda anche il «quaggiù», il nostro qui e ora. I nostri mari, il “Mare Nostrum”.

Ogni volta che tirano su le reti, i pescatori italiani sanno che almeno il dieci per cento di quello che troveranno è spazzatura. Ripulire il pesce da bottiglie, flaconi, buste strappate è una fatica certosina. La quantità di plastica che galleggia negli oceani è tale che tra gli ecologisti si parla ormai di un “sesto continente” formato dai detriti alla deriva. Ma questa forma di inquinamento è particolarmente evidente nel Mediterraneo, che ha una densità di detriti tra le più alte del mondo. L’Adriatico sta peggio del Tirreno: si calcola che una barca che naviga da Trieste a Brindisi avvisti in media 5 rifiuti galleggianti per ogni chilometro, mentre nel Tirreno sarebbero meno di due. Però proprio di fronte alla Toscana è stata avvistata una gigantesca “isola di plastica”, una zona in cui le correnti fanno addensare i detriti in una orribile “zuppa” che in alcuni periodi arriva a misurare 10 chilometri di diametro. E questo, secondo una recente denuncia di Greenpeace, proprio in un tratto di mare tra la Corsica e l’Isola d’Elba che è zona protetta come “santuario dei cetacei”.
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Ogni giorno una piccolissima parte di quei detriti viene intercettata dalle reti da pesca. Ma anche quella, purtroppo, ritorna in mare. «Oggi, paradossalmente, il pescatore è spinto a ributtare in acqua i rifiuti che trova nelle reti», continua Bugli. «La legge prevede infatti che siano trattati come rifiuti speciali, e questo richiede una trafila complicata. Le spese, poi, dovrebbero essere a carico di chi porta i rifiuti, cioè dei pescatori stessi! La nostra sperimentazione ha ispirato la proposta di legge Salvamare, che è stata già approvata alla Camera, e che consentirà di trattarli come rifiuti normali. Finalmente quindi si potrà inserire la pulizia del mare nella normale gestione della spazzatura».

Durante la campagna Arcipelago Pulito, gli scarti finiti nelle acque e sui fondali sono rientrati nel circuito “sano” della gestione dei rifiuti. L’unico trattamento speciale è stata una pausa sul nastro trasportatore della zona di selezione della Revet, il tempo per gli scatti della fotografa Laura Lezza che, nelle immagini che pubblichiamo in queste pagine, ha promosso quei detriti colonizzati dalle creature marine a involontarie opere d’arte, a simboli del conflitto tra uomo e natura. Un flacone che ricorda un elmo militare, il volante di un motoscafo ricoperto di conchiglie come un’anfora dell’antica Grecia. Un vecchio guanto di gomma sembra un mostro marino giallo, una lattina spiaccicata rimanda ai collage dell’arte povera. Il filosofo Alfonso Iacono ha definito questi detriti scelti «forme senza contesto e quindi senza senso o significato, quasi non più oggetti ma forme quasi pure».
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Il biologo Giovanni Raimondi dell’Acquario di Livorno invece ha cercato il nome scientifico di tutte le creature della flora e della fauna marine che li hanno colonizzati.

Una piccola pausa che porta questi avanzi di consumismo nel mondo dell’arte e del pensiero, e poi via verso l’impianto di riciclo. Trituratura, lavaggio, densificazione, granulazione sono le fasi che trasformano i rifiuti in granuli di plastica riciclata prodotti in base alle richieste dei clienti dell’azienda toscana. Che hanno esigenze varie e commissionano polimeri molto diversi. Perché, come spiega il presidente Livio Giannotti, «vanno dal costruttore delle panchine dello stadio di calcio, che deve seguire i criteri di resistenza al sole e al fuoco stabiliti dalla Fifa, alla startup di giovani architetti collegati al Sant’Anna di Pisa, che producono con una stampante in 3D lampade, sedie e altri oggetti di design».

Dove c’erano i 18 quintali di rifiuti ripescati dal mare in cinque mesi da sei pescherecci del porto di Livorno, ora ci sono lampade, sedie, barchette di plastica. Un successo che ha spinto l’Unione Europea a indicare il progetto italiano come modello per tutti i paesi membri. Perché è la prima volta che si mette insieme la filiera completa della gestione dei rifiuti ripescati dal mare: dalla raccolta al riuso delle materie prime recuperate, fino allo smaltimento degli scarti non recuperabili. «Con Simona Bonafé, che è europarlamentare, abbiamo portato la nostra proposta al Parlamento europeo», racconta Bigli. «È nata così la direttiva comunitaria che invita tutti i paesi dell’Unione a seguire il nostro esempio e a lavorare per il “Fishing for litter”».
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La prima campagna è finita nell’autunno del 2018. Ora si riparte, e l’Arcipelago si allarga. È stato annunciato nei giorni scorsi un nuovo progetto, più ampio del precedente. «La nuova sperimentazione comprenderà cinque porti e almeno venti pescherecci», dice l’assessore. «Oltre a Livorno, ci saranno Castiglione della Pescaia, Piombino, Porto Ercole, Porto Santo Stefano e Viareggio. E speriamo che la nostra esperienza venga ripresa in altre regioni. Nella campagna scorsa abbiamo calcolato che ogni volta che si tirano le reti vengono su almeno quaranta chili di rifiuti: pensiamo quale effetto potrebbe avere coinvolgere ogni giorno tutti i pescherecci d’Italia. Certo, questo richiede la collaborazione di aziende per la raccolta e il riciclo, amministrazioni comunali, capitanerie di porto. E anche di trovare il modo per dare un incentivo ai pescatori, come prevede la legge Salvamare: perché fanno un lavoro in più, diventano spazzini del mare, e questo impegno in qualche modo gli deve essere riconosciuto».

Solo una piccola parte dei rifiuti recuperati da Arcipelago Pulito è risultata adatta a essere riutilizzata. Oltre a vetro, acciaio e alluminio, la maggior parte del materiale recuperato era quel miscuglio di polimeri di seconda scelta che in gergo si chiama “plasmix”. E nella maggior parte dei casi si trattava di oggetti che erano sul fondo del mare da chissà quanto tempo, ed erano quindi troppo deteriorati per permettere un nuovo utilizzo. «Nel caso delle plastiche ripescate in mare lo scarto di lavorazione è molto più alto rispetto a quelle che arrivano dalla normale gestione dei rifiuti urbani», commenta Giannotti. «Normalmente teniamo il 70 per cento dei rifiuti di plastica, in questo caso solo il 30». Il resto dei rifiuti recuperati dal mare è stato smaltito correttamente: cioè in parte è stato trasformato in energia dai termovalorizzatori, in parte, ahimè, è finito in discarica.
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Sempre meglio che lasciarli in mare dove la plastica, in realtà, non muore mai. Si calcola che una bottiglia possa durare anche mille anni, e comunque non arriverà mai a scomporsi in elementi non inquinanti. Con il passare degli anni, o anche dei secoli, infatti, il materiale si limita a corrodersi, a frantumarsi in frammenti sempre più piccoli, ma non sparisce. Diventa anzi sempre più pericolosa, come hanno dimostrato frequenti ricerche negli ultimi anni. Si trasforma in quella microplastica che ha ormai invaso tutte le acque del pianeta: anche quella delle nuvole e dei ghiacciai, anche quella che forma il sessanta per cento del corpo di ognuno di noi.

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