Masse passivo-aggressive che giustificano tutto in nome di una fede, veritiera o no, incattiviti contro i "tizi di colore" che si permettono di guadagnare come i bianchi. Con capi stupidi e spesso pure disonesti. E se qualcuno racconta l'odio, il colpevole diventa lui

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L’amministratore delegato della Lega Calcio, per l’occasione più Lega che Calcio, l’ha spiegato chiaramente: se negli stadi si sentono i buu razzisti, spegniamo i microfoni. Sembra la versione alla pummarola del celebre motteggio brechtiano («Se i politici non rappresentano più gli elettori, cambiamo elettori») e forse lo è, anche se il latore dell’affermazione, pronunciata davanti ai colleghi in una sorta di patto dell’albumina tra maschi, in quei consessi dove si gioca a chi la fa più lontano ma si mira comunque nella medesima direzione, ha spiegato, e forse non aveva tutti i torti, che l’enormità andava contestualizzata. Che lui ne faceva una questione di immagine. Di contaminazione da non estendere. Tipo mettere la mascherina antisettica a un corpo pronto per l’inumazione.

Ma contestualizziamola, sì. Infiliamola nella corrente del fiume inquinato che attraversa questo Paese che non è che non abbia bisogno di eroi, li schifa proprio. E nel quale certe logiche familistiche, di difesa dello status quo, dell’impossibilità di vedersi da fuori, dell’accettare i propri limiti non già cavillandoli, come ammoniva Confucio, per superarne gli effetti, per migliorarsi, ma esaltandoli, rivendicandoli, rotolandocisi dentro, con un vaghissimo senso dell’opportunità riservato solo a chi sta oltreconfine. Così, De Siervo si è detto preoccupato dei cori razzisti perché sennò chissà all’estero cosa pensano. Così, Salvini fa la faccia meno dura solo quando passa la frontiera. E allora tronca, sopisce, rassicura, cerca di dimostrare agli odiati eurocrati che non è come sembra, che certi specchietti per le allodole valgono solo da noi, ché si sa come siamo fatti, ma dove serve il vestito buono…

Ecco: come siamo fatti? Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti gli stadi. Dove masse passivo-aggressive giustificano tutto in nome di una fede, veritiera o no, talvolta prezzolati da presidenti furbastri, odiano la parte opposta senza una ragione specifica, festeggiano non già la rete, il successo, ma la caduta avversaria, non capiscono nulla o quasi di quel che stanno guardando, odiano chi glielo racconta, violentano il proprio ruolo - la passione - a beneficio di un tifo ottuso e vendicativo. Con capi stupidi, ignoranti, spesso pure disonesti. Comunque, quasi sempre, incattiviti contro i tizi di colore che si permettono, non sia mai, di guadagnare come i bianchi. Rubano loro il lavoro. Ma come cazzo si permettono.

Siamo tutti Nino Manfredi in Pane e cioccolata, con la differenza che lì la vessazione era reale, il razzismo era subito, e il gesto dell’ombrello alla rete azzurra, in mezzo ai crucchi attoniti, pareva una vendetta onesta, giusta, inevitabile. Oggi lo riserviamo ai più deboli. Ed è come se in quella partita avesse vinto la Svizzera, e tutti avessero mostrato il medio al povero italiano. Vi sembra forse una scena decente? Ecco: siamo lì.

E chi può, paga il biglietto per uscire.

Giudizio: Cinque stelle