Stato del Guerrero, sudovest. La guerra tra Stato e trafficanti uccide ogni giorno contadini, ragazzi, giornalisti. E la difesa dei diritti umani è passata dalle ong alle famiglie, organizzate in squadre di ricerca degli scomparsi per trovare le fosse comuni (Foto di Alfredo Bosco)

04-jpg

Tutti sapevano che quei 43 ragazzi spariti nella notte tra il 26 e il 27 dicembre del 2014, molti dei quali minorenni, non erano narcotrafficanti, ma studenti della scuola rurale per maestri di Ayotzinapa, nello Stato messicano di Guerrero. Tutti sapevano che stavano andando a una manifestazione, lo sapevano i militari che hanno fermato gli autobus su cui viaggiavano. Lo sapevano quando li hanno interrogati, forse torturati, e quando li hanno ceduti alla criminalità organizzata. Da quella notte i 43 studenti risultano desaparecidos.

Messico, Stato di Guerrero. Uno dei più poveri del Paese, con un’economia prevalentemente rurale e una forte componente indigena nella popolazione. Sulla costa c’è Acapulco, destinazione mitica della nave da crociera della serie “Love Boat” negli anni ’80. Luogo privilegiato di vacanza per gli abitanti di Città del Messico, chiusi negli hotel sulla spiaggia, dove la sicurezza è garantita.
03-jpg

Per tutti gli altri, vivere a Guerrero significa vivere in una zona di guerra. Quella finta, che lo Stato ha dichiarato, a partire dal 2006, al narcotraffico. E quella vera, feroce, contro la parte più povera della popolazione. Che altro non è che la continuazione della guerra sucia (guerra sporca) degli anni ’70, usata per schiacciare i movimenti sociali di protesta. Le violazioni, da allora, continuano e vanno dall’arresto e detenzione illegale alla tortura, dalle esecuzioni sommarie alla desaparición.

«Il caso dei 43 studenti è la punta di un iceberg, in un Paese dove dal 2006 a oggi contiamo 40 mila desaparecidos», dice José Antonio Guevara, direttore esecutivo della Comisión Mexicana de Defensa y Promoción de los Derechos Humanos.
06-jpg

«La loro storia ha avuto una grande ripercussione internazionale», spiega Maria Cappello, un’italiana che ha vissuto in Messico per oltre 10 anni, collaborando con varie associazioni per i diritti umani, tra cui la stessa Comisión. «Grazie alle reti sociali, sono state diffuse le immagini dell’arresto, che hanno scosso l’opinione pubblica, ed è stata organizzata una mobilitazione a livello mondiale». Tanto che a giugno scorso, a quattro anni dalla scomparsa, il tribunale ha riaperto il caso, anche per le forti pressioni dei media e della società civile. Ma il livello di impunità resta altissimo: il 98 per cento delle denunce si risolve in un nulla di fatto.
07-jpg

L’anno chiave per comprendere quel complesso intreccio tra potere politico, economico, forze militari e criminalità organizzata che comanda in Messico è il 2006, quando l’allora presidente Felipe Calderón, che aveva vinto le elezioni con pochissimo margine ed era stato accusato di frode, decide di recuperare popolarità dichiarando la guerra al narcotraffico. La conseguenza? «Una totale militarizzazione del Paese, tra esercito e polizia federale e locale», dice Alberto Solís Castro, direttore esecutivo di Serapaz, organizzazione che offre alle popolazioni rurali accompagnamento, protezione e formazione sui loro diritti. «L’offensiva dell’esercito ha spinto i narcos ad armarsi di più, mentre gli arresti di alcuni cabecillas, boss locali, hanno portato alla frammentazione delle bande in conflitto tra loro e con lo Stato. Sono cambiate le alleanze, si sono rotti gli equilibri, la situazione è diventata ingovernabile».

Nel frattempo la criminalità organizzata si era infiltrata nei municipi e, passo dopo passo, era arrivata fino alle istituzioni federali. «Ci sono stati molti morti tra gli amministratori locali, legati all’uno o all’altro gruppo criminale», continua Solís Castro. «Lo stesso esercito, una volta preso il controllo di un territorio, entrava nel mercato della droga e della prostituzione». Stringendo patti di non belligeranza, o vere e proprie alleanze, con le bande che avrebbe dovuto combattere, dato che droga e prostituzione sono le principali voci del Pil reale messicano. E, tutto sommato, ce n’è abbastanza perché molti possano approfittarne.
09-jpg

«Qualsiasi attore sociale - leader contadino, attivista per i diritti umani, ecologista o giornalista - che si intromette tra questi due poli, Stato e narcos, rischia la morte», spiega Solís. «Tra i giornalisti, i più esposti sono quelli delle testate locali, in prima linea davanti alle piccole faide tra cabecillas e amministratori. Coprono notizie minori, parlano di buche stradali ma se, anche involontariamente, toccano interessi legati al narcotraffico, vengono ammazzati».
10-jpg

Secondo Reporters sans frontières, il Messico è il terzo Paese al mondo per numero di giornalisti assassinati (dopo Afghanistan e Siria). Nel 2018 sono stati 9, per un totale di 148 omicidi dal 2000 a oggi, tra cui 14 donne. E sono 21 i desaparecidos. Dal 2011 esiste una sezione speciale del tribunale che si dedica ai reati legati alla libertà di espressione, ma con scarso successo.
11-jpg

«La nostra professione sta attraversando il periodo più difficile di sempre», dice Olga Villegas, giornalista che alcuni anni fa ha abbandonato la cronaca per aprire lo studio di design e comunicazione Toro Pinto (http://toro-pinto.com/) a Guadalajara (Jalisco). «Le minacce della criminalità organizzata sono il motivo per cui molti di noi hanno smesso di informare su temi come il traffico di droga e la corruzione».
12-jpg

Analoga la sorte dei leader contadini, che cercano di proteggere la selva dallo sfruttamento da parte delle multinazionali del legname o delle miniere. «Ci occupiamo della tutela di queste persone», spiega Solís di Serapaz. «Non si tratta di distribuire giubbetti antiproiettili, ma di attivare i tradizionali meccanismi di protezione delle comunità, come le ronde autogestite. Abbiamo poi a disposizione alloggi segreti per nascondere le persone minacciate». Ma nemmeno questo è totalmente efficace. Nel 2012 l’organizzazione aveva nascosto a Città del Messico 11 attivisti di Guerrero. Stavano rientrando a casa, una volta che il pericolo sembrava cessato.
13-jpg

Ma il loro autobus è stato fermato e li hanno obbligati a scendere. Attualmente risultano desaparecidos.
La violenza istituzionale e della criminalità si intreccia con quella di genere. «Le donne fermate dalla polizia, anche solo per un controllo durante una manifestazione, ricevono insulti e minacce sessuali», dice Nancy López, avvocata della Comisión esperta in femminicidio. «Nelle carceri e nei luoghi di detenzione illegale, la tortura sessuale è comune, ma riservata soprattutto alle prigioniere e molto meno agli uomini». In altri casi, le donne sono usate come ricompensa per favori ricevuti o bottino di guerra da parte dei narcos. «Si sono verificati rapimenti di mogli e figlie di leader locali, amministratori che non si sono lasciati corrompere, capi di bande rivali», dice Solís Castro.
14-jpg

Il tema delle desapariciones non è un fenomeno recente, ma risale agli anni ’70. Mentre il Messico offriva asilo politico agli esuli cileni e argentini, praticava una feroce repressione sulle popolazioni locali, in particolare quelle indigene. «Una dittatura mascherata da presidenzialismo reprimeva contadini, studenti e poveri», dice Nancy López. Tanto che tra gli attivisti politici circolava un’amara battuta: «Ci vorrebbe anche per noi un’ambasciata del Messico dove rifugiarci».

Proprio nello Stato di Guerrero, all’inizio degli anni ’70, si verificano insurrezioni di movimenti contadini. Tra il 1967 e il 1974 è attivo il Partido de los pobres (partito dei poveri), a ispirazione marxista. «Diventa poi un’organizzazione guerrigliera, offrendo il pretesto all’esercito», dice López, «di intervenire con detenzioni illegali, deportazioni e soprattutto desapariciones».
08-jpg

È il caso di Rosendo Radilla, maestro, leader comunitario e autore di corridos, ballate popolari i cui testi hanno un contenuto di critica sociale. «Arrestato nel 1974 davanti agli occhi di uno dei figli», racconta López, «non è più tornato». Da 45 anni, sua figlia Tita cerca la verità. Nel 2009, rappresentata dall’avvocata López, ottiene da una sentenza della Corte interamericana per i diritti umani - organismo sovranazionale con potere coercitivo - che ordina al governo messicano di mettere a disposizione gli archivi, per accertare i fatti e risalire alla catena di comando. «Ma il governo non ha ancora ottemperato», dice la legale. «E se anche le responsabilità venissero accertate, gli autori materiali e i mandanti oggi sono tutti morti o molto vecchi». Impossibile ottenere una qualsiasi forma di giustizia che non sia puramente simbolica.

Tita Radilla è diventata l’apripista di una nuova fase nella difesa dei diritti umani, nella quale la gestione è passata dalle Ong alle famiglie. «Dopo aver ricevuto formazione in temi legali da associazioni come la nostra», dice Nancy López , «si sono organizzate in brigadas de busqueda, squadre di ricerca, e gestiscono le indagini autonomamente». In molti casi sono loro a localizzare le fosse comuni dove sono sepolte le vittime. «Non abbiamo scelto di diventare difensori dei diritti umani, la vita ci ha obbligato a farlo», ripete Tita a ogni nuovo ritrovamento.
05-jpg

Il suo impegno la rende un “bersaglio potenziale”: difendere le vittime, in Messico, può trasformarti in vittima. «Se il presidente Calderón aveva rafforzato la presenza militare sul territorio», spiega José Antonio Guevara, «il suo successore Enrique Peña Nieto, in carica dal 2012 al 2018, si è dimostrato particolarmente sensibile al dissenso, criminalizzando ogni forma di protesta, anche pacifica. La vicenda dei 43 studenti si colloca in questo contesto. Noi stessi siamo stati dipinti come i complici di narcos e terroristi, solo perché difendiamo le vittime di tortura, anche quando si tratta di persone che hanno compiuto a loro volta reati. Siamo stati attaccati con campagne di diffamazione, ci hanno messo i telefoni sotto controllo, hanno cercato di discreditarci in ogni modo».

E il futuro? Andrés Manuel López Obrador (Amlo), il cui mandato è iniziato a dicembre 2018 e che tanti entusiasmi aveva acceso a sinistra, sta già raffreddando gli animi, dopo aver annunciato la creazione di una “Guardia Nacional”. Un corpo alle dipendenze del ministero della Difesa, ma che si occuperebbe essenzialmente di ordine pubblico, materia di competenza della polizia e non dell’esercito. «Per farlo deve cambiare la costituzione», spiega Guevara. Se dovesse passare la riforma, la partecipazione dell’esercito in operazioni di sicurezza pubblica sarebbe permanente e non più eccezionale, le direttive nazionali sarebbero elaborate da uno stato maggiore militare, le stesse operazioni verrebbero dirette da ufficiali delle forze armate e, in caso di abusi o violazioni, i responsabili sarebbero processati da tribunali militari, anziché dalla magistratura ordinaria.
01-jpg

«L’esercito non è formato per prevenire e indagare», osserva Guevara. «L’esercito è addestrato per uccidere e in tutti gli Stati democratici viene impiegato per la difesa dei confini e non per combattere la criminalità. Crediamo che militarizzare ulteriormente la pubblica sicurezza non sia la soluzione, ma parte del problema».

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso