L’Osservatorio di Milano sulla criminalità organizzata  diretto da Nando dalla Chiesa ricostruisce in una ricerca il “fiume pedagogico” che dai primi anni Ottanta ha visto protagonisti centinaia di insegnanti. Sull’esempio di Pippo Fava

antimafia-jpg
«Ecco l’operazione che la scuola dovrebbe condurre, al di là di quelle che sono le idee dei partiti - perché sono teoricamente tutte buone le idee dei partiti, sono gli uomini che sono corruttibili o corrotti, che sono deboli, che sono ignoranti - eccola: stare dentro la politica facendo politica nel senso antico del termine. Nel senso di una cosa che interessa il bene comune. La Repubblica ci appartiene: siamo noi. E allora lottate perché dentro questa Repubblica ci sia giustizia. Perché se noi riusciremo veramente a fare giustizia, e non dentro le aule di tribunale ma prima, giustizia dentro la società, giustizia per i poveri, per gli emarginati, per noi stessi, allora potremo essere sicuri di poter cominciare a sconfiggere la mafia. Soprattutto potremo essere sicuri di essere veramente persone che abbiano la loro dignità e intatta la loro libertà».

Era il 20 dicembre del 1983. Pochi giorni dopo Giuseppe “Pippo” Fava sarebbe stato ucciso da Cosa nostra. Quel 20 dicembre, in piedi, parlava agli studenti di Palazzolo Acreide, la sua città, in provincia di Siracusa. Da giornalista, da amico, parlava loro con l’urgenza ch’era la sua di portare un cambiamento, di smuovere la colla del potere mafioso e di quanti vi stanno attaccati. Centinaia di maestri e maestre, in Sicilia e nelle altre regioni d’Italia, ascoltarono quella voce. Lo fecero molto prima di tanti funzionari pubblici rimasti a nicchiare, a non voler compromettere scacchiere, equilibri, modi di fare, perché occuparsi seriamente di mafia porta guai. È a questo «fiume pedagogico, a questa vera antimafia, a quest’affresco dell’Italia civile» che l’Osservatorio sulla criminalità organizzata di Milano, diretto da Nando dalla Chiesa, ha appena dedicato una amplissima ricerca.

Quasi mille pagine di testimonianze di insegnanti, di esempi di laboratori, viaggi, assemblee, conferenze, di una «grande storia di bene che viene normalmente ignorata e che va invece raccolta prima che venga persa», racconta ora il professore dalla Chiesa, ripercorrendo «l’adrenalina e l’entusiasmo con cui gruppi di docenti a partire dai primi anni Ottanta si sono inventati progetti e strumenti per aggredire il cuore della mafia», ovvero la sua tradizione silenziosa, quella melma che si appiccica da generazioni vestendosi da compromesso, denaro facile, elezione sicura, indiscussa potestà, favore da restituire.

Queste insegnanti di frontiera, a Siracusa come a Cuneo o Scandicci, hanno cercato di intaccare il sistema mafioso provando a far comprendere ai ragazzi l’insita ingiustizia della promessa mafiosa. Partendo dagli studi. «Perché com’è possibile contrastare un nemico che non si conosce o non si sa vedere?», riflette dalla Chiesa, che a questo scopo ha fondato nel 2008 il primo corso universitario specifico sul tema: Sociologia della criminalità organizzata (l’unico in Italia). È pure titolare dei corsi di Sociologia e metodi dell’educazione alla legalità, Organizzazioni criminali globali, Gestione e comunicazione di impresa. Nonostante ciò registra «come l’Università si sia mossa con trent’anni di ritardo rispetto alle scuole dell’obbligo».

Se li ricorda, Dalla Chiesa, «i prof che ci facevano dormire a casa con loro perché non avevano soldi per ospitare i relatori in albergo, le docenti che passavano le notti a organizzare iniziative che venivano considerate “una perdita di tempo” dai colleghi e che raramente erano registrate all’esterno, dalla stampa, dalle istituzioni». Certo, «alcuni dirigenti puntavano e tutt’ora puntano sui grandi eventi, molto remunerativi in termini d’immagine ma poveri di continuità», e quindi incapaci di attecchire a fondo nelle coscienze.

«Ma altrettanti hanno avviato percorsi profondi. Riconoscendo che la criminalità organizzata e i suoi codici sono un fenomeno profondo che non si può combattere stando in superficie», conclude il sociologo. Sono loro i maestri e le maestre a cui è dedicata la ricerca, «pionieri che non hanno mai chiesto niente, che pochi conoscono, che sono rimasti lontani dai palcoscenici», anche quando l’antimafia diventava una bandiera strattonata da tutti. Pionieri di «una storia civile fondamentale, che non va perduta».

Sono esempi di un’Italia che di fronte alla violenza mafiosa si è mossa presto. Nella Milano dove ancora nel 2010 il prefetto Gian Valerio Lombardi dichiarava che le cosche «non esistono» in città, già nel 1986 Nando Benigno fondava il Coordinamento insegnanti e presidi in lotta contro la mafia, attraverso il quale organizzava maxi-assemblee di studenti e professori per analizzare e affrontare insieme le sfide della criminalità alla democrazia. Benigno, cresciuto in Puglia, «è portatore di una sensibilità “originaria” spesso superiore rispetto ai propri colleghi nati o cresciuti in contesti differenti: sia per quanto riguarda i temi della legalità sia, in particolare, per la necessità di contrastare il prepotere mafioso», osservano gli autori dello studio sulla Lombardia (Mattia Maestri, Sarah Mazzenzana, Samuele Motta).

Si creano così dei ponti imprevisti, e necessari, fra Sud e Nord. Non avviene solo a Milano. Ci sono persone come Gaspare D’Angelo, originario di Cianciana, in provincia di Agrigento che per più di vent’anni ha insegnato all’Itis “Pietro Paleocapa”, nella bergamasca, diventando colonna delle attività per la legalità. Nuclei di maestri di frontiera che si passano il testimone, diventando il filo rosso di una nuova resistenza tutta umana. Il riferimento non è casuale: il parallelo con la Resistenza è costante nei laboratori con cui le prime scuole del Piemonte affrontano la necessità di contrastare le cosche. Sulle colline di Bra, Fossano, e Alba, tre istituti tecnici iniziano nel 1984 un percorso di approfondimento che parte dalla memoria partigiana e porta i ragazzi, ricorda Irene Ciravegna, la docente di lettere che aveva avviato la strada, «ad avere l’opportunità ad esempio di incontrare il giudice Laudi, rimanendo colpiti dal fatto che il magistrato fosse costretto a viaggiare con la scorta, sacrificando la sua libertà personale».

La memoria diventa materia viva. Porta all’esigenza di innovare forme e modi dello scambio. Dai viaggi scolastici alla tecnologia. Mariano Turigliatto è un volto storico di Grugliasco, grosso comune alle porte di Torino. Nel 1993 funzionari e politici del Comune vennero arrestati per tangenti. Lui diventerà sindaco, per poi tornare al suo vero mestiere: insegnare all’Itis Majorana della città. Dove, nel 1998, organizza una delle prime chat con Rita Borsellino e una video-intervista realizzata dagli studenti. «Nell’arco dello stesso anno l’intervento venne proiettato in almeno dieci scuole», racconta la ricercatrice Eleonora Cusin. Una sua alunna, intervistata al Tg, spiegava: «Attraverso la nostra presenza vogliamo dare una chiara testimonianza ai nostri coetanei siciliani che non sono soli in questa lotta di civiltà contro la mafia e che possono contare su di noi per combatterla».

La Sicilia aveva iniziato a gettare le fondamenta per una nuova sensibilità comune attraverso una legge del 1980. Nata dalla voragine dell’omicidio del presidente regionale Piersanti Mattarella, il 6 gennaio di quell’anno, per la prima volta in Italia finanzia una volontà di rinascita a lungo periodo, attraverso corsi antimafia nelle scuole. Se questa è una storia che cresce dal basso, infatti, dalle singole aule, gli esempi raccolti nella ricerca mostrano il peso che hanno e possono avere politica, stampa e istituzioni quando non si limitano a fare da soprammobili.

Uno dei molti casi raccolti al Sud da Martina Mazzeo è quello di un duraturo e costante progetto voluto dall’allora assessora all’Istruzione di Palermo Alessandra Siragusa. Si intitolava “adotta un monumento” e puntava a promuovere la partecipazione delle comunità alla vita della città, riappropriandosene, non lasciandola al consumo e al degrado. Dal 1992, per dieci anni, il percorso istituzionale ha permesso a adolescenti e bambini di studiare il territorio con esperti d’arte e di mafia. E alla città di riaprire molti monumenti prima chiusi al pubblico. Per riconoscere e portare un tributo forse piccolo, ma significativo, alla lotta alla criminalità organizzata, in Campania ci sono i 30 complessi scolastici intitolati a don Peppe Diana, Rosario Livatino, Ilaria Alpi, Giancarlo Siani, o Annalisa Durante, uccisa a 14 anni nel rione di Forcella.

Per far germogliare idee diverse è fondamentale però che i ragazzi siano protagonisti. Che non stiano solo seduti a ascoltare un relatore per un giorno. Come piuttosto? Un liceo scientifico di Siderno lo ha fatto avviando un laboratorio in cui gli studenti erano invitati a seguire il modello di Fava, e diventare giornalisti, fare domande, scrivendo poi articoli che confluivano in una rivista della cooperativa di Libera Macramè. Un’idea simile si ritrova in Emilia Romagna, dove Daniele Paci propose già all’inizio del 1980 ai suoi coetanei, studenti, di realizzare inchieste sul traffico di eroina nel riminese. Gli alunni di medie e superiori si fecero carico di estendere quelle indagini nei loro quartieri. Insieme diedero vita ai primi comitati antimafia di Rimini, nel 1984.

Era il momento degli inizi. Dopo, con i primi anni Duemila, le istituzioni, anche quelle scolastiche, hanno iniziato a normalizzare. Ad acquietare questo fiume smorzandone i toni, rinominando i corsi, diventati spesso obbligatori, sotto diciture più blande, oppure inserendo i progetti all’interno dell’ombrello dell’educazione “alla cittadinanza”. Come se l’energia e l’esigenza di mantenere viva una storia civile dell’antimafia non fosse già sufficientemente importante in un paese come l’Italia.

Negli ultimi anni però sono rifiorite nuove esperienze. Che hanno fatto tesoro delle migliori lezioni del fiume pedagogico raccontato nella ricerca, portando partecipazione, continuità e protagonismo per i ragazzi. Attraverso il teatro, ad esempio, come nel caso di “Dieci storie proprio così”, uno spettacolo itinerante che coinvolge associazioni, testimoni di giustizia, storici, e soprattutto studenti, portando sul palco e nelle aule testimonianze dirette contro la mafia e laboratori educativi. Oppure attraverso i fumetti, come fa “daSud” nelle classi del Lazio, insieme al Miur e Repubblica, che partendo dalle storie disegnate di “McMafia” ha portato gli alunni del quartiere Cinecittà a fondare una web radio, oltre al giornale scolastico.

«I sistemi clientelari e mafioso-clientelari sono possibili nella misura in cui i singoli, isolati, non sanno, non sono in grado di farsi valere, si rassegnano a non agire e a non pesare secondo i propri veri interessi», scriveva Danilo Dolci in “Inventare il futuro”: «È evidente come sia dunque indispensabile, per valorizzare effettivamente ciascuno, mirare a costruire e ad interrelare nuovi gruppi democratici aperti, e nel contempo superare, sciogliere i vecchi gruppi sclerotici: ad ogni livello».

Quell’esigenza non si è spenta. Può, e deve, restare viva soprattutto fra i ragazzi, che una volta insieme «ad uno ad uno / sgrumandosi comunicano: / ogni voce è uno stimolo e un invito / ogni prova di scavo tende a unirli –, / osservo gli occhi disintorbidarsi», vedeva sempre Dolci, in “Poema Umano”, nel 1974. Disintorbidarsi. Passandosi di banco in banco l’invito di Pippo Fava.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Siamo tutti complici - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso