«Il Partito Democratico non basta. Serve un altro soggetto politico. Per riportare gli astensionisti alle urne. E parlare ai delusi del M5s». Parla il sindaco di Milano. Che guarda oltre le Olimpiadi. In anteprima per gli abbonati Espresso+ l'intervista esclusiva in edicola da domenica

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Il suo urlo di gioia nella sala di Losanna ha spiazzato tutti, era dai tempi della corsa di Marco Tardelli alla finale dei mondiali di Spagna nel 1982 che non si vedeva qualcosa del genere, dalle nostre parti. Beppe Sala, 61 anni, sindaco di Milano dal 2016 dopo una carriera da manager pubblico e privato, è l’amministratore che ha portato a casa le Olimpiadi per la sua città, insieme a Cortina, e per la politica italiana è un uomo di sinistra che vince e, per di più, sorride: un caso unico. Ha le simpatiche fattezze di un topone disneyano e scava: oggi a Milano, domani chissà. In questa intervista parla del suo futuro: le Olimpiadi, la ricandidatura a sindaco, il processo per l’Expo. E annuncia: «Il Pd da solo non ce la fa. Serve un nuovo soggetto, con due bandiere. Ambiente e giustizia sociale». Lo farà lui «No, qualcun altro». Un qualcuno che sembra Sala.

Sala con i calzettoni arcobaleno del Pride, Sala in piazza, Sala che esulta a Losanna gridando Italia-Italia. In questi tre anni da sindaco ha ribaltato l’immagine del grigio manager dei numeri con cui aveva cominciato il suo mandato. Qualcuno comincia a pensare che il vero genio del marketing politico è lei, non Salvini.
«L’urlo di Losanna è uscito spontaneo, era l’effetto della tensione per la vicenda dell’Ema, quando Milano perse la sede dell’Agenzia del farmaco. C’è voluto coraggio per candidarsi alle Olimpiadi, puoi apparire come uno bravo e capace ma se poi perdi tutte le battaglie non serve a nulla. In questi anni ho capito che bisogna essere spontanei e autentici, se ti vengono certe cose che fanno parte del tuo modo di essere non vanno represse. Sto riflettendo molto su come la politica mi ha cambiato ma soprattutto sul ruolo di chi fa politica. A tutti, soprattutto ai giovani, ripeto che la politica è fondamentale, senza la politica le cose non avvengono, come dimostra il caso delle Olimpiadi. Ma oggi i politici sono autoreferenziali, vivono di meccanismi e comportamenti che non raggiungono nessuno. Prendiamo il Movimento 5 Stelle. Hanno vinto le elezioni, erano un movimento giovane, ma hanno detto che la competenza non è un valore. Mi chiedo che soddisfazione ci sia stata nel vincere le elezioni per poi non fare le cose. La comunicazione, il parlarsi addosso, i mille tweet servono a vincere le elezioni, ma non a governare bene e a essere ricordato dai cittadini perché hai fatto bene le cose. Bisogna fare un esame di coscienza: basta con questa litania della politica che è una missione. La politica è un lavoro. E come tutti i lavori deve avere come presupposto il tuo percorso, la tua esperienza, quello che hai imparato».

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In quell’urlo si percepiva una passione che i politici dei tweet simulano: fanno vedere che hanno passione...
«Rischio di difendere la gente della mia generazione, ma un po’ lo devo fare. Un percorso di vita non è fatto solo di competenza, ma di vittorie, sconfitte, relazioni, conoscenza dell’animo umano. La cosa meno contemporanea sono le carriere politiche che nascono da ragazzi e che vanno avanti per sempre. Ci sono casi come quello di Pierfrancesco Majorino, ma lui si è confrontato con l’amministrazione. Ma altri vengono dal nulla, sono giovani e si ritrovano in ruoli che indirizzano il futuro del Paese, senza niente alle spalle».

Cosa insegna alla politica italiana la vittoria di Milano-Cortina?
«Un messaggio semplice: gli italiani si stanno rompendo le scatole di tante parole. Se proponi i fatti, qualcosa che si può oggettivamente vedere, c’è disponibilità a seguire. La seconda lezione è che la politica si deve confrontare anche aspramente sulle questioni sociali, ma quando riesce a stare insieme su questioni di interesse generale sfonda, perché nulla piace alla gente quanto i politici che riescono a trovare una sintesi. Possibile che non ci riesca mai di fare alcune cose insieme? Io a Milano posso proporre qualsiasi cosa, ma l’opposizione sarà contro per partito preso. Nella politica la maggioranza è maggioranza e l’opposizione dice no a tutto in attesa di diventare maggioranza, nel lavoro e in famiglia non funziona così. Anche questo distacca la politica dalla società».

[[ge:rep-locali:espresso:285333709]]Quindi anche lei si iscrive al partito del Sì? L’abbraccio tra lei e Luca Zaia prefigura una vicinanza tra il Pd e la Lega in nome dei settori produttivi del Nord?
«È possibile che su alcuni temi sia più facile trovare l’accordo. Ma io vedo dentro la Lega una spaccatura tra l’estremismo di Salvini e un’altra parte che oggi abbozza perché il leader è molto forte. Il governatore del Veneto sa bene che le imprese e le aziende agricole della sua regione fanno profitti anche grazie al lavoro degli immigrati, non credo che accetti certi toni estremisti. Salvini è su una posizione conflittuale che non penso sia gradita a tutta la Lega. È una contraddizione destinata ad allargarsi perché la Lega insegue un ruolo di leadership di governo, in modo legittimo. I 5 Stelle hanno dimostrato tutta la loro inesperienza, in Forza Italia non so se la diarchia Toti-Carfagna sia l’ennesimo trucco di Berlusconi ma è chiaro che è un partito da rifondare. E i limiti della sinistra sono evidenti».

Ci saranno le elezioni anticipate? La Lega spaccherà la maggioranza proprio sui temi più cari al suo elettorato del nord: su tasse, infrastrutture, sviluppo?
«La Lega potrà rompere solo se riuscirà ad attribuire agli altri l’iniziativa della crisi, ma per come sono messi oggi i 5 Stelle non credo sarà facilissimo. Oggi i 5 Stelle non hanno interesse ad andare a votare, Forza Italia neppure e il Pd nemmeno. Salvini immagina di vincere e vuole le elezioni. I leghisti avrebbero un grande dividendo elettorale, ma hanno bisogno di una grande scusa. La flat tax è una grande scusa? Mah. Su questo la penso diversamente da alcuni esponenti della mia parte politica che battono sul tasto del “non ci sono i soldi, l’Europa non ce lo consente”. Io imposterei la polemica in modo diverso. La progressività delle tasse è una conquista faticosa della sinistra, su questo ci si incatena. È uno degli elementi di giustizia. E io non conosco tutti questi imprenditori che si lamentano della pressione fiscale, il punto vero è il recupero fiscale, a Milano stiamo facendo esperimenti interessanti: fermi per le auto i cui proprietari non hanno pagato le multe o pignoramenti per chi non paga i tributi, ovviamente sopra una certa cifra. Con buoni risultati che porteremo al ministro dell’Economia. Oggi con gli strumenti digitali recuperare è possibile, c’è un problema di volontà politica. La flat tax è un’altra promessa che va contro la giustizia. Non è giusta. Così come non è giusta quota 100. Mi chiedo perché non si facciano analisi più precise sulla aspettativa di vita e sul costo della sanità. Con l’età che si allunga e il problema di curare nei prossimi anni le malattie degenerative a lungo decorso stiamo dicendo alle persone di andare in pensione prima. C’è la possibilità di dire che il re è nudo. Il re è nudo, questa maggioranza di governo sta facendo cose totalmente disallineate rispetto a un percorso sociale che è stato compiuto in Italia e contro i giovani».

Lei dice che il Pd non vuole andare a votare. In realtà Zingaretti dice il contrario: elezioni subito in caso di crisi.
«Con Nicola sono d’accordo su tante cose, su questa meno. Se si andasse a votare oggi non capisco quale sarebbe l’utilità di vedere eletto un Parlamento di centrodestra a guida leghista che nel 2022 elegge il nuovo presidente della Repubblica, il successore di Sergio Mattarella. Io non auspico il voto. Spero che si voti più avanti».

Sabino Cassese ha scritto sul “Corriere” che Zingaretti non parla, non si sente, che c’è un vuoto di leadership. È un problema per l’opposizione?
«Non conosco la sua agenda. Non so se si fa sentire poco perché è impegnato su altre cose, ad esempio non so cosa stia facendo nel Sud per liberare il Pd da potentati locali ormai in disuso. Il problema non è andare in tv o sui social o meno. Il problema è uscire dalla comfort zone in cui si è rinchiuso il Pd. Qual è il punto di equilibrio tra l’esigenza di unità e il vincolo con i vecchi schemi che ti impone questa ricerca? Non ho nulla contro l’unità, ma se vuole dire tornare alle rigidità del passato che hanno portato a questa situazione non serve a nulla. Non possiamo rimettere in piedi totem pesanti come il cemento. Io vorrei una sinistra più determinata e, per quanto riesco, sto cercando di portare il mio contributo. I giovani sentono poco la politica. Purtroppo sentono ancora meno il Pd, visto come un partito vecchio e litigioso. Ma questo ci mette davanti a una grande opportunità. Non ci sono alternative. O il Pd riesce a cambiare rapidamente pelle e a presentarsi come un partito più moderno che affronta seriamente i temi più sensibili, dall’ambiente alla giustizia sociale, oppure ci penserà qualcun altro».

Vorrebbe essere lei quel “qualcun altro”?
«Voglio essere sincero: mi piacerebbe, ma oggi non posso, me lo devo inibire, tanto più che c’è questa nuova responsabilità. Chi ha capacità, proposte, deve farsi avanti. Basta dire che non interpretiamo il disagio: facciamolo».

Serve un nuovo soggetto, un nuovo partito?
«Io credo di sì. Il Pd può crescere ancora, ma non più di tanto. Solo un nuovo soggetto può riportare al voto qualcuno che normalmente non va a votare, qualcuno che ha votato per i 5 Stelle, e perfino qualche elettore della Lega che fa fatica ad accettare l’estremismo e la cattiveria salviniana. Anche per questo vedo in modo negativo elezioni a breve termine. Si rischia che il nuovo soggetto sia solo una figurina».

Cosa dovrebbe fare quel “qualcun altro”, che non è lei ma assomiglia a lei?
«Mi scoccia un po’ dirlo perché rischia di essere una ricetta teorica. La prima questione è che questo continuo parlare di stare alla sinistra del Pd, o alla destra, è tutto sbagliato».

Quando si pensa a lei, si immagina nello spazio di Carlo Calenda, tra i moderati.
«I moderati sono la parte che mi interessa meno. Io mi considero, al limite, un moderato radicale. Se i 5 Stelle ci hanno insegnato una cosa è che si possono prendere grandi consensi evitando questa orizzontalità della politica: la destra, il centrodestra, il centro... Dobbiamo evitare le etichette e parlare dei temi. Giustizia sociale e ambientale: in tutto il mondo la sinistra progressista discute di questo. Trovare modelli di socialità diversa rispetto a cui l’ambiente abbia un ruolo centrale. Oggi l’ambiente è la politica: aziende, lavoro, socialità. Il giorno dopo il voto di Losanna sono stato in conference call con il sindaco di Londra Sadiq Khan e il mio amico sindaco di Los Angeles Eric Garcetti che ha avuto la tentazione di candidarsi alle primarie dei Democratici. I sindaci stanno tracciando la strada, un sindaco a Istanbul ha battuto Erdogan, essere sindaco di Milano è oggi un ruolo fondamentale».

Milano può essere un modello nazionale? Negli anni Sessanta anticipò il centro-sinistra a livello nazionale, in altri momenti è sembrata un’anomalia. Oggi sembra il simbolo della sinistra Ztl che vince nei ricchi centri urbani e perde nelle periferie: per nulla facile da esportare.
«Milano è un’eccezione perché ha fatto un salto in avanti sulle principali questioni che garantiscono il buon funzionamento di una città, dai trasporti ai rifiuti. Roma è un passo indietro perché deve prima mettere a posto questi fronti, da questo punto di vista capisco le paure di Virginia Raggi sulle Olimpiadi a Roma. Milano è al centro di un nord che è sempre più distante dal sud del Paese. Le politiche come il reddito di cittadinanza non porteranno a nulla di buono, senza politiche industriali si accentuerà il divario. Per quanto difficile bisogna trovare una formula per investire nel Sud. Mi chiedo perché alcuni esperimenti non si possano fare anche al meridione. Serve un patto per cui lo Stato mette a disposizione un pezzo del suo patrimonio, a partire dalle caserme dismesse, con il vincolo che il ricavato lo si reinveste immediatamente per infrastrutture che aspettano da decenni, come la ferrovia pugliese o la messa in sicurezza rispetto al dissesto idrogeologico. Il Sud può diventare l’area test del Paese».

Renzi l’ha chiamata per complimentarsi per le Olimpiadi?
«No».

Neppure un messaggino?
«Prima o poi dovremo rivederci e accettare le nostre diversità».

Colpa di chi?
«Non lo so. Io ho detto che Matteo è stato poco coinvolgente, avrebbe dovuto parlare meno con il suo piccolo circolo e di più con persone di livello e con autonomia di pensiero, è qualcosa che lo ha danneggiato. Io ora sarò più disponibile. Sento molta gente dire: Renzi era il più bravo, peccato che, e poi ognuno ci mette i suoi puntini. Io dovrei fare un passo verso di lui e lui verso gli italiani, dicendosi pronto a cambiare alcuni aspetti del suo carattere, anche a suo vantaggio».

Tra i totem c’è quello che Marco Minniti vorrebbe buttare giù, le politiche troppo deboli nei confronti dell’immigrazione?
«Oggi in molti dicono di guardare alla socialdemocrazia danese, dura con i migranti. Io credo che dobbiamo intervenire sui problemi dove ci sono. Da amministratore quando ho parlato di Daspo sui Rom in alcuni quartieri non ho avuto grandi dissensi, ma mi rendo conto che sulle politiche nazionali il discorso è molto più complesso. Non regge la formula prendiamo tutti o non prendiamo nessuno. Dobbiamo fare un patto con l’Europa per cui l’Italia si impegni ad accogliere il numero possibile, con buon senso. Superando questa battaglia che si accanisce su poche decine di persone nel Mediterraneo».

La prossima settimana ci sarà un’altra prova, la sentenza nel processo che la vede come imputato per falso ideologico nei lavori dell’Expo. In caso di condanna potrebbe ritirarsi dalla politica?
«Dirlo ora suonerebbe come una pressione. La richiesta di pena è sotto la legge Severino, ma non posso prevedere quale sarebbe l’effetto su di me. Io sento di aver fatto un sacrificio enorme in termini personali in cinque anni di lavoro per permettere che l’Expo si facesse, mi conosco, so che una eventuale condanna mi costerebbe un ulteriore sforzo di responsabilità».

Se non c’è la politica nazionale, si ricandiderà per un secondo mandato alla guida di Milano?
«Lo vedrò quando sarà il tempo. Adesso bisogna mettere la testa sulle Olimpiadi, bisogna evitare quello che successe con l’Expo nella fase iniziale. Giancarlo Giorgetti dice che ha già in mente qualcuno, non voglio neppure sapere chi è perché non va bene il metodo. Dobbiamo discutere di cosa serve, ascoltare tutti, piaccia o non piaccia io tra i soci sono quello che ha maggiori esperienze gestionali di grandi eventi, studieremo i profili e la governance necessaria. Se qualcuno ha già in mente i nomi se li tolga dalla testa, sono inaccettabili senza una riflessione comune. Non stiamo insieme per vincere la candidatura, si sta insieme per fare un buon lavoro. Non ho un atteggiamento di protervia, la mia esperienza è al servizio, però nessuno si sogni di prendere decisioni a tavolino, a Palazzo Chigi o da qualche altra parte».

Cosa significa per lei una sconfitta?
«Ho affrontato una malattia e ho avuto paura. Da sindaco ho perso quando si è votato sull’Agenzia del farmaco a Milano. Ma queste esperienze mi hanno fatto capire che ogni sconfitta ti dice che devi voltare pagina rapidamente e andare oltre».

Che significa vincere?
«Considerare che non c’è una vittoria personale, solitaria. La vittoria è sempre la vittoria di una comunità».