
Una email ciascuno, poche ore prima dell’apertura delle urne per le elezioni europee. Per loro e per i 1860 di tutte le altre cinquantaquattro sedi in tutta Italia. On, off. Dopo anni di crisi, certo. Il crollo del 2009, i contratti di solidarietà del 2015, i contratti-capestro imposti a ridosso di ferragosto di un anno fa. Ore dimezzate per molti, trasferimenti in altre sedi, turni stravolti. Però le promesse, dopo, a tenere accesa fortissima la speranza del rilancio. La solita favola della “transizione digitale”. L’ammodernamento, i corsi di formazione, il camion mobile del team building aziendale. Con gli psicologi a fare i test attitudinali e l’amministratore delegato a inviare video motivazionali sul cellulare. «Abbiate fiducia nella riorganizzazione aziendale. Lo facciamo per voi e vi vogliamo bene».

Febbraio, aprile, marzo. Sembra ieri, è una manciata di settimane fa. Nessuno aveva immaginato la beffa, né il danno. Certo, la politica aziendale non era quella dei tempi andati. «Ci facevano vendere sulla carta e chiedere ai clienti il 100 percento della somma. Un bisogno sfrenato di fare cassa e svuotare magazzino», spiega Anna Cipriani, settore mobili. «La gente qui si fida di noi, viene al Mercatone da anni. Ci è venuta dietro e noi ci abbiamo messo la faccia. Da inizio anno, però, abbiamo notato che i fornitori saltavano, le consegne tardavano e la merce non arrivava. Abbiamo provato vergogna», ribadisce Marilena Fusaro, una vita in amministrazione.
«Abbiamo sfiorato le risse alla cassa, le percosse. La gente voleva indietro i soldi. Ma noi ci fidavamo del Mercatone, noi per primi. Abbiamo garantito. Non potevamo pensare», si sbraccia Dario De Donato, esperto di complementi d’arredo. Si tolgono la parola, si interrompono fra loro e poi si abbracciano e si chiedono scusa. Non rompono mai il cerchio. In pochi minuti, arrivano gli altri, arrivano tutti. Somigliano a una famiglia colpita da un lutto. Una morte improvvisa, tutta da elaborare.

Ogni mattina continuano a venire ai cancelli. Le sedie da campeggio, i termos di caffè, patatine e taralli in borsa per spezzare la fame e calmare i nervi. Senza lavoro da dieci giorni. Senza farsene una ragione. Senza stipendio da aprile. Senza certezza di avere cassa integrazione e ammortizzatori sociali, nel mentre. Senza futuro davanti. E però è della merce che ti parlano, ancora, alla fine. Alla merce, con questo presidio, fanno da scorta. «Nessuno la deve toccare, la merce. Se si prendono la merce è finita», ripetono. E mostrano i primi tentativi dei ladri di entrare e rubare tutto: forniture, arredi, computer. E lo capisci che resistono davvero, ostinatissimi. Nessuno li può sgomberare. E aspettano. Si aspettano che accada qualcosa, che arrivi qualcuno, finalmente, oltre ai consiglieri comunali delle città vicine. «Lo sappiamo che Maurizio Landini ha molti impegni. Però deve venire, non ci può abbandonare», ripete Franco Veneto, del sindacato interno, con una timidezza che suona stonata ma è solo sfinita. Landini, Di Maio, qualcuno.
Solo un “decreto salva Mercatone” può sbloccare adesso la partita più urgente, che è quella degli stipendi arretrati e degli ammortizzatori sociali. Che però qui nominano poco e sottovoce. Perché, in fondo, i 54 di Terlizzi vogliono solo una cosa, dopo 27 anni dall’altra parte del cancello: tornare là dentro e lavorare. In magazzino, in ufficio, davanti agli scaffali o in cassa. Lavorare al Mercatone, che qui se lo dicevi in giro la gente portava rispetto anche se nella vita facevi il semplice impiegato. «Pure Marco Pantani correva per il Mercatone. Te lo ricordi Pantani?», dice Dario arrabbiato. E si passa una mano sul viso.