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Altro che Francesco Totti: le bandiere nel calcio, finito di giocare, fanno solo danni

Francesco Totti
Francesco Totti

Terminata la carriera sul rettangolo di gioco, i giocatori-simbolo non servono più a niente alle loro società. Può sembrare triste o irriconoscente, ma lo dimostra una lunghissima serie di flop

Francesco Totti
I due poli dell’equivoco calcio, gioco e business, sono in costante allontanamento. In mezzo, le bandiere vengono tirate da una parte e dall’altra finché la tensione le straccia. Da Francesco Totti a Michel Platini è un’estate triste per i passionali, costretti alla fuga nel negazionismo pur di conservare una reliquia di amori tramontati.

Intanto il termometro dei social ripete il suo verso. Michel sarà sempre le Roi, anche dopo una squalifica di cinque anni per pagamenti Fifa non giustificati e un’inchiesta per corruzione sui Mondiali assegnati al Qatar. L’altro re, l’ottavo di Roma, il Pupone di Porta Metronia, turba il tifo giallorosso con la sua uscita fragorosa dalla fossa dei serpenti a stelle e strisce. La bandiera Totti, nella sua esternazione al Coni con la regia del romanistissimo Giovanni Malagò, le ha cantate a tutti denunciando la pulizia etnica della romanità dalla Roma con sprezzo del ridicolo. Ha solo dimenticato di essere stato dirigente di una società a capitali Usa, parte dei quali andavano nelle sue tasche, proprio in quanto bandiera. Per fare il salto di qualità, l’ex campione non ha ritenuto opportuno investire qualche centinaio di euro in lezioni di lingua inglese. È evidente che doveva essere il proprietario Jim Pallotta a imparare il romanesco.

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Il caso Totti racconta, una volta di più, che le bandiere sono un equivoco emotivo e una iattura economica nella gestione di un club professionistico.
Gli esempi recenti abbondano. Il Milan delle bandiere rossonere Paolo Maldini, dirigente, e Rino Gattuso, allenatore, ha fallito la qualificazione in Champions league sul campo e mancherà il torneo minore dell’Europa league per disguidi finanziari. L’Inter ha una bandiera, il vicepresidente Javier Zanetti, che trascorre malinconicamente il suo tempo firmando palloni e posando per i fotografi con Ed Sheeran o altri artisti di passaggio per San Siro. È una figura che viene nobilitata con il nome di ambasciatore ma è poco più di un testimonial buttato in pasto a platee di bambini che non hanno idea di chi sia il vecchio attrezzo, se il padre non fornisce l’indispensabile briefing.

Per contrasto, la squadra che domina da otto campionati, la Juventus, ha sistematicamente scartato le bandiere a cominciare da Alex Del Piero. In attesa di vedere il figliol prodigo Gigi Buffon alle prese con un ruolo direttivo, Claudio Marchisio è stato messo in condizioni di andarsene allo Zenit, squadra del cuore del presidente russo Vladimir Putin. Durante la gestione Giraudo-Moggi, il terzo elemento della Triade era l’ex fuoriclasse torinese Roberto Bettega. Non finì benissimo. Nel 2006 un’epoca di trionfi fu conclusa con la storica prima retrocessione in B dei bianconeri per illecito sportivo.

Per ribadire la sua anaffettività, alla fine della stagione 2018-2019 la Juve si è privata del suo allenatore Massimiliano Allegri, colpevole di avere mancato la vittoria in Europa, e lo ha sostituito con Maurizio Sarri, ex Chelsea e soprattutto ex Napoli dove più volte aveva interpretato il Masaniello contro lo strapotere juventino. A Fuorigrotta e dintorni non hanno preso bene la conversione del compagno Sarri ai milioni di Exor. Al ministero del Lavoro, neppure. «Ho sofferto», ha dichiarato in radio il tifoso azzurro Luigi Di Maio. «Come in politica dovrebbe esistere il vincolo di mandato per cui se entri con uno non puoi passare a un’altra squadra». Allarmato dalle conseguenze globali della sua dichiarazione, il vicepremier ha subito piazzato il disclaimer. «Lo dico ironicamente», ha aggiunto.

Il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis ha nascosto il veleno verso l’ex dipendente sotto un rassegnato «così fan tutti, tranne me che amo il Napoli da quindici anni contro gli ingrati e i contestatori». Nonostante ami il Napoli, o forse proprio per questo, il produttore cinematografico ben si guarda dal coinvolgere nella società la bandiera delle bandiere azzurre, Diego Armando Maradona, oggi allenatore disoccupato. Dopo un’esperienza sfortunata da commissario tecnico della nazionale argentina (2008-2010) ha avuto due ingaggi negli Emirati (al Wasl e Fujeirah). Il suo ultimo contratto, annullato due settimane fa, gli ha portato una panchina nel campionato messicano di serie B, i Dorados di Sinaloa, che hanno fallito la promozione in prima serie.

Sarebbe facile attribuire la guerra contro le bandiere agli eccessi del modello neoliberista nel football e, magari, allo strapotere delle televisioni, più cornute di un arbitro negli anni Sessanta. Ma la persecuzione delle vecchie glorie non è un fenomeno di oggi. Nel febbraio 1986, quando Silvio Berlusconi prese il Milan, essendo lui stesso un tiepido simpatizzante dell’Inter, per prima cosa fece fuori Gianni Rivera. Il pallone d’Oro dell’annata 1969 fu costretto a trovarsi un lavoro come sottosegretario al ministero della Difesa con quattro governi dell’Ulivo, proprio il Gianni che non si era mai umiliato a difendere in tutta la sua gloriosa carriera in rossonero. Meglio di lui ha fatto Pelè, per molti ancora il più grande di sempre, che è arrivato alla carica di ministro dello Sport in Brasile.

L’arcirivale di Rivera, Sandro Mazzola, non ha avuto molta fortuna come dirigente della sua Inter (uno scudetto e una coppa Uefa in undici anni) e ancor meno con il Torino, la squadra di cui era bandiera il padre Valentino, che ingaggiò Mazzola junior tra il 2000 e il 2003. Lo stesso vale per Giancarlo Antognoni, manager della Fiorentina con i Cecchi Gori, poi ingaggiato dal settore giovanile della Federcalcio senza lasciare un’impronta, com’è capitato a un altro campione passato da Firenze, Roberto Baggio.

Proprio in questa settimana Antognoni ha aperto un dialogo con il nuovo proprietario dei viola, il calabro-statunitense Rocco Commisso che, di suo, non sembra dare troppo valore agli aspetti emotivi del calcio. Tifoso juventino, si è interessato all’acquisto della Reggina e del Milan, prima di chiudere la trattativa con i Della Valle a Firenze, una città non proprio famosa per la tolleranza verso il bianconero.

Una bandiera su mille ce la fa. L’eccezione più importante è il fuoriclasse tedesco Karl-Heinz Rummenigge, ceduto dal Bayern all’Inter dello scudetto di Ernesto Pellegrini. Dopo avere smesso di giocare, Kalle si è inventato una carriera da dirigente dei bavaresi all’altezza del suo passato di calciatore. Qualche problema in più lo ha avuto il suo ex compagno di squadra Uli Hoeness, che ha scontato una condanna per evasione fiscale con ventuno mesi di carcere, rinunciando all’appello. Pagato il debito con la giustizia, nel 2016 è stato rieletto presidente dei rossi di Monaco.

Esclusi allenatori e commentatori tv, le bandiere hanno a volte la tentazione di mettersi in politica.
A parte Rivera, il Milan produce leader a livello internazionale. Sulle orme dell’ex premier ed europarlamentare Berlusconi, hanno avuto successo George Weah in Liberia (presidente della Repubblica) e Kakha Kaladze in Georgia (ministro dell’Energia e oggi sindaco di Tbilisi). Fra i non milanisti si ricorda un passaggio alla Camera di Massimo Mauro (Udinese, Juventus, Napoli) come deputato dell’Ulivo e le due legislature dell’ex laziale Luigi Martini con Alleanza nazionale.

Come il football, la politica è un settore con un serio problema di vecchie bandiere avvinghiate a un incarico o sempre pronte a rientrare per salvare le sorti del club. In questo campo funzionano meglio i calciatori. Loro almeno sanno che prima o poi bisogna ritirarsi.

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