Il Movimento è stato divorato da Salvini. Perché ha tradito le origini o perché la parabola era coerente con la partenza. E ora non resta che il Palazzo della politica
Certo: se nel 2013 volevano Gino Strada al Quirinale e nel 2019 hanno votato i peggiori decreti di Salvini, qualcosa dev’essere cambiato, nel Movimento 5 Stelle. E di tradimento valoriale parlano in molti, soprattutto tra gli elettori grillini che provenivano da sinistra. “Tradimento” per via del lungo appiattimento governativo sull’estrema destra della Lega, ma anche per altro: come i voltafaccia su Tav, Tap e “mandato zero”, fino all’uno-vale-uno orizzontale e assembleare trasformatosi in una linea di comando super verticale, con un capo politico in chiaro (Di Maio) e un altro criptato (Davide Casaleggio).
E poi, tanto altro. Fa quasi sorridere oggi rileggere il libro-manifesto che Grillo, Casaleggio senior e Dario Fo avevano mandato insieme alle stampe - sempre sei anni fa - per l’editore Chiarelettere. Si intitolava “Il Grillo canta sempre al tramonto” ed era un dialogo platonico, visionario e palingenetico tra tecnologia, democrazia, ambiente e giustizia sociale. Sull’immigrazione, fra l’altro, vi si leggevano frasi come «la percentuale di nuovi nati da coppie straniere salva dal collasso demografico il nostro Paese», «partiti reazionari pseudofascisti e la Lega Nord si sono serviti del discorso sull’immigrazione per indignare gli elettori e portarli all’odio razziale», con una chicca pronunciata da Grillo in persona: «Il nazismo e il fascismo non scompaiono mai. Io ne sento l’odore da lontano e questo è il momento del loro grande ritorno. Quando ci sono pesanti crisi economiche e politiche, la gente rispolvera le parole d’ordine più facili e comprensibili. Oggi se uno dice “basta con gli immigrati” ha un seguito immediato. Stanno nascendo in Europa delle destre violentissime che fanno leva sui sentimenti e sui luoghi comuni più irrazionali, l’immigrato che arriva e ti ruba il posto di lavoro oppure “il pane è nostro e ce lo dividiamo tra noi”. Non bisogna lasciare spiragli possibili a queste forze». [[ge:rep-locali:espresso:285334851]] Già, fanno amaramente sorridere oggi queste parole. Eppure la vicenda del M5S non si può nemmeno risolvere così, semplificandola nella consueta storiella degli incendiari che da grandi si sono fatti pompieri, nel “movimento” che è diventato “istituzione”, negli utopisti che si sono convertiiti alla politica “sangue e merda”, per citare lo sconsolato realismo a cui è pervenuto il senatore Alberto Airola, ex videomaker no Tav e antimilitarista.
Non si può risolvere così la faccenda, nella banale perdita dei “valori originari” di cui tutti i partiti o quasi sono storicamente vittime, perché stiamo parlando del Movimento 5 Stelle, cioè del primo partito che nasce già - proprio come Dna - su un magma post ideologico fatto di polivalenze, ambiguità, immensi spazi vuoti su infiniti temi che possono quindi essere riempiti a piacere, negli anni, da una spinta o da quella opposta. Un partito che si diffonde incamerando ogni protesta ma proponendo poi solo una breve playlist di obiettivi (democrazia diretta, ambiente, lotta alla casta, difesa dei precari) e lasciando volutamente senza risposta tutti gli altri temi, quasi che questi fossero eternamente differibili o comunque facilmente liquidabili con un plebiscito “della rete”.
Basta guardarlo, il programma originale del M5S, su Internet si trova ancora: più che liquido, è proprio gassoso, seppure disseminato di buone intenzioni là dove proponeva qualcosa. E mentre si entrava in dettagli su energia, web o informazione, non una parola - tra i tanti vuoti - su immigrazione, tasse o diritti civili, ad esempio. La destrutturazione portata all’estremo, con il paracadute di una piattaforma on line per decidere - in futuro, eventualmente - su tutto il resto.
È come se alla pretesa sistematica e onnicomprensiva dei vecchi partiti ideologici - quelli che avevano una fin troppo rigida base di pensiero e su quella costruivano una chiave per rispondere a tutto - si fosse reagito con l’esatto contrario: pochissimi obiettivi verticali, da segnare con una spunta una volta raggiunti (così funzionava il sito) e di tutto il resto non ci occupiamo, non sappiamo, vedremo. «Non mi compete», come diceva ad esempio della questione fascismo-antifascismo lo stesso Grillo, contraddicendo peraltro quanto scritto nello stesso periodo con con Casaleggio senior e Fo.
“Contraddicendo”, appunto: fattosi partito di governo, il Movimento 5 Stelle ha finito per imbrigliarsi nelle contraddizioni che inevitabilmente scoppiano in assenza di un minimo di disegno di Paese, assenza a sua volta causata dall’avversione nativa per le ideologie, per i modelli sistematici. E così quello che era un punto di forza, cioè il proprio essere amplissimo contenitore di conflitti versus l’establishment senza i paletti di una definizione costruens - è diventato un fattore di debolezza, di sconfitta. Specie stando per 15 mesi in coabitazione di potere con un partito, la Lega, che invece possiede un modello di riferimento ideologico robusto, fatto di nazionalismo, sovranismo, xenofobia, autoritarismo, “democratura” trumputiniana, destra culturale ed economica, law and order, e sullo sfondo una visione limpidamente reazionaria su tradizione, famiglia, rapporti di genere e diritti civili.
Un anno fa il Movimento sperava che l’incontro-scontro con la Lega nella coalizione di governo fosse declinabile tutto nel “contratto” di governo, che fosse quello a costituire il campo di gioco, a farsi arbitro della competizione; invece a stabilire le regole nel confronto è stato l’impatto tra una corazzata di ideologia (quella leghista, di estrema destra) e una nuvola (una “tag cloud”, verrebbe da dire) di intenzioni playlist, che si sono squagliate in pochi mesi di fronte alla potenza di fuoco salviniana. Una struttura dalle solide fondamenta (di destra) si è abbattuta su un’altra che di fondamenta non he mai avute né volute, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
L’esito perdente di questa ambiguità genetica oggi presta il fianco a quanti, da anni, parlavano di “germinazioni fasciste” interne al grillismo fin dalle sue origini.
Certo, queste “germinazioni” esistevano eccome: ad esempio nel linguaggio intollerante e violento con cui veniva condotta la battaglia on line tanto dal fondatore quanto dai suoi seguaci. Ma fino a pochi mesi coesistevano con pulsioni del tutto diverse se non opposte - perfino libertarie e antiautoritarie, ecologiste e antimilitariste - in un grande ibrido dove la polivalente vaghezza post ideologica veniva compensata (o riempita) da una gestione sempre più “leninista” della disciplina di partito.
Lo stesso numero molto alto di espulsi e fuoriusciti era ed è la spia di questo paradosso: da un lato, un profilo politico e programmatico così indistinto che tutti o quasi possono aderire, candidarsi, diventare parlamentari; dall’altro un sistema di comando rigido e inflessibile, che espelle non tanto per eresia politica rispetto a un’ideologia (che non c’è) quanto per l’inaccettabile disobbedienza al vertice stesso, che riempie di se stesso i vuoti di visione.
Un paradosso a cui è finito per seguirne un altro, ormai sempre più evidente: quello che era il movimento dei cittadini e della società, contrapposto al “Palazzo della politica”, oggi è arroccato dentro quello stesso Parlamento che nel 2013 Grillo - in una delle sue iperboli sempre incerte tra battuta e no - voleva addirittura «bombardare».
Dal giugno 2018 all'agosto di quest'anno, M5S è stato costretto costretto ad accettare il quotidiano dominio leghista anche perché aveva perso terreno fuori dal rione romano della politica, in quello stesso “fuori” dove prima stava tutta la sua forza polemica e la sua “virtù anti casta”. Una pena del contrappasso e quasi una beffa, per chi è nato con il "vaffanculo" ai politici imbullonati sulla poltrona, l’immagine di 300 parlamentari del Movimento spaventati all’idea di andare al voto dopo essere stati portatori d’acqua del progetto egemonico salviniano.
Era inevitabile che finisse così, il movimento che contestava il Pd da sinistra per la timidezza nell’opporsi a Berlusconi, per l’incontro del Nazareno, per il governo con Alfano e per il Jobs Act?
Era scritto che quell’afflato esploso nella “Woodstok a Cinque stelle” di Cesena, nel settembre del 2010, si trasformasse in stampella dell’esecutivo più a destra e autoritario della storia repubblicana?
O era storicamente possibile un destino diverso, magari evitando i popcorn mentre si andava costituendo il governo poi divorato da Salvini?
Anche se avessimo una risposta, ormai sarebbe utile solo per decidere chi ha sbagliato di più, anche a sinistra, negli ultimi dieci anni.
Semmai oggi è più interessante guardare a domani: ad esempio provando a capire se il contenitore grillino si è ormai irrecuperabilmente riempito di destra oppure se, grazie a questa crisi di governo non voluta da loro, esistono margini di trasformazione; oppure ancora se è semplicemente destinato a svuotarsi, chiudendo così la sua parabola per debolezza di fondamenta.