Si definisca con tre aggettivi.
Così possono chiederti a un colloquio di lavoro. Compito arduo, giacché gli aggettivi devono essere quelli giusti, capaci di dire qualcosa di noi. L’aggettivo può metterti in luce, oppure farti precipitare in un baratro. Quando Capote aveva dodici anni, il preside della scuola chiamò i genitori: a suo parere, e secondo quello del consiglio di classe, il giovane Truman era da considerarsi “subnormale”. In tutta risposta, il padre e la madre lo spedirono in una clinica per accertamenti psichiatrici. Lì, venne sottoposto al test del QI. Il risultato non fu quello sperato, almeno dai genitori di Capote. Entrambi volevano sentirsi dire che il figlio era un ragazzino come tutti gli altri, non immaginavano certo che sarebbe stato definito “geniale”. L’aggettivo è una lama, capace di incidere contorni senza sbavature. Di profilare con nettezza la persona o la cosa alla quale si riferisce. Già, ma solo quando è necessario e scelto con cura. John Cheever lo sapeva bene, lui che soppesava aggettivi e parole, fino alla sensazione di aver composto una frase come se non fosse mai stata scritta in quel modo.
Moderno, connesso, straordinario, rigoroso, concreto, efficiente, ambizioso. Succede invece spesso, come nel discorso di Conte alla Camera, che l’aggettivo sia un rimedio all’horror vacui. Non è più una lama, assomiglia piuttosto a un gorgo, soprattutto se accoppiato a nomi altrettanto generici. Eccolo lì: fa girare la testa, fa perdere solidità al discorso. Alla fine, non ricordiamo quasi nulla di quello che è stato detto. Esornativo, svuotato di significato, è l’aggettivo che induce amnesia. Succede ascoltando Giuseppe Conte, succede anche quando, sulla scia di un luogo comune, viene definito “buono” il gigante che ha ucciso Elisa, fino a mistificare la natura dei fatti, a farne scordare una parte. Non abbiamo più bisogno di un linguaggio evanescente, ma di formule e parole esatte. È una questione politica, etica, umana. Non abbiamo bisogno di dimenticare, ma di vedere la realtà.