Non si ferma l’odio per libertà di scelta garantita da quella legge 194 che i nuovi e vecchi movimenti no-choice vorrebbero abolire

L'inchiesta dell’Espresso (e la denuncia di una donna che si è trovata il suo nome su una tomba in un cimitero di cui ignorava l’esistenza) hanno portato all’attenzione pubblica lo scandalo legale di una trentina di luoghi di tumulazione dei feti abortiti. Posti simili non sono spazi di pietà per i prodotti abortivi, ma nascono per punire le donne, messe in croce una per una sulla tomba delle maternità che non hanno voluto o potuto assumersi.

È il trionfo dello stigma sociale, la lettera scarlatta, la gogna e soprattutto l’eterno memento del senso di colpa: ricordati che hai fatto morire e se provi a dimenticartelo te lo ricordiamo noi. Che si sappia chi sono le degenerate che hanno scelto di non dare la vita. Che si conosca il nome di chi ha rigettato la sua vocazione naturale. Così accade che i nomi delle donne, che in tutti gli altri contesti spariscono con estrema facilità, in questo genere di cimitero vengano invece crocifissi sulle tombe, contro la volontà delle persone coinvolte o addirittura a loro insaputa.

La violenza simbolica è praticata con la complicità della burocrazia, spietata con le vite delle donne vive e vegete in nome della presunta pietà per i resti delle interruzioni di gravidanza. In luoghi come questo viene infatti inscenato il paradosso che spesso appartiene ai cosiddetti movimenti religiosi anti-scelta: la vita presunta è più rispettata della vita effettiva.

Vergogne
Il diritto di aborto trasformato in tortura. Vi racconto la mia cicatrice, in nome di tutte
28/9/2020

La matrice di questo paradosso è l’odio alle donne e alla libertà di scelta garantita da quella legge 194 che i nuovi e vecchi movimenti no-choice vorrebbero abolire. Fermo restando che la libera scelta di non diventare madre è motivazione più che sufficiente per l’aborto, sarebbe stato molto più interessante se sulle croci fossero stati scritti non i nomi delle donne, ma le motivazioni esterne che le hanno condotte a scegliere di non diventare madri. Immaginate quanto sarebbe più veritiera e lucida una simile distesa di cartigli, croce per croce. “Posti insufficienti negli asili e nidi pubblici”, “Inesistenti politiche per la conciliazione familiare”, “Dislivelli di congedo parentale per i padri”, “Differenza di stipendio tra i generi”, “Timore della condanna sociale”, “Stupro”, “Paura di non essere all’altezza dell’idea sociale di maternità”, “Rischio di perdita del lavoro”, “Sfiducia nel futuro”, “Malasanità”, “Affitti impossibili da sostenere”, “Precarietà contrattuale”, “Nessun ammortizzatore sociale”, “Assegni familiari ridicoli”, “Nonni lontani”, “Scuole fatiscenti”.

Questo cimitero all’idea di futuro esiste: è sotto gli occhi di tutti ogni volta che leggiamo le statistiche che indicano il tasso di natalità italiano in 1,3 figli per donna. Se fosse un luogo fisico, quello che agli occhi di chi lo ha visitato è apparso come un immenso atto di accusa contro le donne apparirebbe finalmente per quello che realmente è: la rappresentazione plastica delle responsabilità politiche e sociali che ogni giorno portano molte di loro a pensare di non avere altra scelta che l’aborto.