Minacce, pestaggi, droga: i boss delle baby gang reclutano tra i banchi di scuola
Si ispirano alle organizzazioni dell’America Latina. Mettono le loro gesta su Instagram. Nella banda trovano famiglia, fedeltà, casa e lavoro. Come Francesco, già capo a 18 anni appena compiuti
Un nome falso e un giro nei parchi dei quartieri più difficili di Firenze. Non occorre altro per entrare a far parte di una baby gang, una delle tante sparse per l’Italia. Come quella di cui si è parlato dopo il pestaggio di Lanciano, dove un diciottenne è finito in coma. È la via più veloce per raccogliere le storie dei ragazzi che ne fanno parte e vivere con loro una quotidianità inquinata da furti, violenze e droga.
Da parte del branco c’è subito piena accoglienza: la considerano un’opportunità per legittimare il proprio potere. Un palcoscenico superiore a quello dei social network, dove con stories e post sfidano le autorità e raccontano parte dei crimini commessi. Si sentono invincibili e si atteggiano come i protagonisti della serie tv “Gomorra”. Sono tutti ragazzi minorenni o appena maggiorenni, con brufoli e volti imberbi. Ma nelle loro persone c’è qualcosa di diverso, di invalicabile.
Il compito di quel primo gruppetto di ragazzi, però, comincia e finisce nel parchetto rionale: sono gli ultimi arrivati e gli spetta ancora la gavetta fatta di piccoli spacci e furtarelli. Dopo alcune telefonate ci spostiamo quindi in un altro quartiere del capoluogo toscano, dove si trova il “covo” della gang. Al portone di un palazzo costruito da poco ci attendono altri tre ragazzi, i “soldati” che difendono il territorio. I modi cambiano con rapidità: alla strafottenza subentrano paranoia e diffidenza, così prima di farmi proseguire chiedono il permesso al capobranco. C’è un andirivieni di ragazzi e di scooter. Ma pochi istanti dopo arriva il via libera dall’alto, in pieno stile malavitoso.
L’appartamento è spazioso ma spoglio. Francesco, il baby boss, appena compiuti 18 anni se lo è fatto comprare dai suoi genitori e ben presto è diventato il quartier generale del gruppo. All’interno una decina di giovani con le braccia tatuate, quasi tutti vestono abiti e indossano accessori costosi. Fumano spinelli seduti intorno a un tavolo sul quale, al centro, riposa una bilancia di precisione e alcune bustine di quella che sembra cocaina.
Altri due giocano al videogioco Grand Theft Auto (Gta), in sottofondo una traccia di musica trap. Il tutto viene documentato con selfie e stories Instagram. «C’è una grossa differenza tra noi e i nostri coetanei: abbiamo fatto una scelta, giurato fedeltà alla gang. È diventata come una famiglia, quella che a molti di noi è mancata per tutta la vita», dice Francesco, il ventunenne indicato come leader dell’organizzazione criminale, che usa un tono algido ma ha un volto ancora infantile. «Per alcuni la gang è diventata un lavoro con il quale portano a casa un po’ di soldi. Altri come me non hanno bisogno di denaro, ma lo fanno per divertimento», aggiunge.
Gli animi si distendono e la gang si rivela per ciò che è realmente: giovani, cresciuti troppo in fretta e tra mille difficoltà. Nel frattempo Francesco descrivere la spartizione degli incarichi, tra chi gestisce il denaro dei proventi e chi si occupa dello spaccio in strada. Colpisce sentirli ammettere che per svago vandalizzano la città e bullizzano anziani e coetanei, ma ci tengono subito a chiarire che per loro è una questione seria. «Abbiamo il nostro giro di clienti fedeli cui vendiamo hashish, marijuana e cocaina. Clienti giovani ma anche più grandi di noi, che sono in grado di sborsare centinaia di euro. E per chi non paga, iniziamo con le minacce e poi passiamo alle botte», spiega Francesco.
Delle famiglie parlano poco: troppe cicatrici per chi viene da contesti indigenti, pochi ricordi impressi nella memoria per coloro che invece hanno avuto tutto senza avere mai le attenzioni richieste. L’argomento scuola passa con una scrollata di spalle: i ragazzi del branco ancora iscritti sono pochi e bocciati più volte, a dimostrazione di come l’abbandono degli studi rimanga una ferita nazionale sempre aperta. Non può mancare invece il supporto della tecnologia.
La ricerca intenzionale di popolarità sui social «ci fa sentire ancora più potenti di quanto già siamo», continua Francesco, che sembra essere la mente del gruppo. Si filma tutto: dalla droga ai pestaggi, ma non sempre «condividendoli nelle chat o sui profili social, visto che due dei nostri sono stati segnalati a causa di alcune storie Instagram. Perciò quando si tratta di affari più grossi è vietata la pubblicazione. Usiamo però le chat per trattare e smerciare le dosi», continua il ragazzo.
Il fenomeno delle baby gang è in netta ascesa nel nostro Paese. I fatti di cronaca parlano di violenze ripetute, furti e traffico di stupefacenti messi a segno da bande di minorenni e giovani adulti (ragazzi fino ai 25 anni). Come nel caso di Francesco e la sua organizzazione criminale, tutti con alle spalle storie di disagio e devianza. L’architettura del branco emula quello delle gang latine: il reclutamento parte dai banchi di scuola o spesso sulla strada, si inizia per gioco per poi farlo diventare un mestiere e la violenza è vista come una forma di riconoscimento.
Per baby gang si intende «microcriminalità organizzata», ovvero «gruppi strutturati con un proprio modus operandi e un capo al comando», puntualizza Maura Manca, presidentessa dell’Osservatorio nazionale dell’adolescenza, psicologa e psicoterapeuta tra le maggiori esperte dell’universo giovanile. In molti casi questi gruppi possono essere «autonomi mentre altre volte fanno parte di sistemi di macrocriminalità nazionale che li fagocitano», continua la psicologa. Che delinea anche un identikit del giovane criminale: «Chi appartiene a una baby gang clinicamente ha una personalità ben strutturata, si riconosce con gli altri membri e per lui il gruppo diventa casa, famiglia e lavoro. In genere, molti sono giovani che purtroppo hanno la vita già segnata».
Secondo l’Osservatorio Nazionale sull’Adolescenza il 6-7 per cento degli under 18 vive esperienze di criminalità collettiva, il 16 per cento ha commesso atti vandalici e tre ragazzi su dieci hanno partecipato a una rissa. I ragazzi affidati all’Ufficio di servizio sociale per i minorenni sono al 15 agosto 2020 circa 16 mila, contro i quasi 21mila totali del 2019 e del 2018. Mentre il numero dei reati commessi da minori e giovani adulti in questa prima parte dell’anno sono 47.224, tra sequestri di persona (139), omicidi volontari (81), spaccio di stupefacenti (5.059), violenze sessuali (840).
Sono in maggioranza minori italiani (12 mila contro i 4 mila stranieri), con una prevalenza di genere maschile. Per quanto riguarda le città-nido per giovani criminali, seguendo il numero di minorenni e giovani adulti presi in carico dai servizi sociali, in testa su tutte c’è Roma (1.609 persone), poi Bologna (1.458), Palermo (1.137), Catania (1.063), Bari (1.020), Napoli (924), Ancona (737), Firenze (662).
Ma cosa spinge questi ragazzi a intraprendere la strada del crimine? «Tanti sono bambini, ma non pensano più come tali. A otto o nove anni conoscono già droga, armi e soldi, e senza un controllo ambientale e familiare scelgono la via della sopravvivenza. Dall’altra parte c’è una condivisione dei valori: la fratellanza che unisce i ragazzi, alcuni dei quali a 16 anni percepiscono un paghetta da mille euro, è un legame che colma dei vuoti», continua Manca. Per i “fratelli” si è quindi disposti a tutto, anche a fare del male. Come è avvenuto con gli undici ragazzini dai 16 ai 25 anni, tutti di origine pakistana, tutti abitanti alla Bolognina, che hanno accoltellato un diciannovenne romeno per rapinarlo di scarpe e t-shirt e aggredito dei connazionali con spranghe, tirapugni e un coltello, con cui una delle vittime è stata colpita al petto e per un soffio la lama non ha toccato il cuore.
Stessa storia per il branco di 30 ragazzini, di un’età compresa dai 13 ai 18 anni, che ha colpito e mandato all’ospedale tre bagnini in un lido di Jesolo lo scorso 30 giugno 2019 solo per essere stati spostati da dove si erano posizionati, ovvero a ridosso della torretta. Confezionando l’aggressione in un video, fatto poi circolare, dove si vantavano del misfatto.
C’è poi l’operazione “Canova regna”: dove otto spacciatori di Trento, tra i 15 e i 17 anni, sono stati accusati, grazie anche alle foto dove immortalavano i migliaia di euro guadagnati, di controllare il giro locale di droga. E la vicenda della baby gang di Vigevano arrestata per violenza sessuale, riduzione in schiavitù, pornografia minorile e violenza aggravata, grazie alle riprese video diffuse su Twitter, WhatsApp, Facebook e Telegram. Fino ad arrivare all’uccisione di Antonio Stano, il 66enne pensionato di Manduria (Taranto) morto il 23 aprile 2019 dopo aver subito una lunga serie di aggressioni, rapine e angherie da parte di più gruppi di giovani.
Senza contare tutti quei reati “minori” come furti, scassi e risse, che spesso, come nel caso dell’omicidio del giovane Willy Monteiro a Colleferro, si trasformano in tragedia. I fratelli Bianchi, infatti, sono stati autori di «comportamenti tipici di una gang, collaudata da tempo», che non sono altro che i «comportamenti futuri dei ragazzini di oggi», assicura la psicologa. In gergo si chiama effetto branco, in quanto «il limite del gruppo diventa il limite individuale, e la percezione è quella di poter condividere il peso morale di ogni azione, per quanto efferate esse siano». Fino al punto della deresponsabilizzazione totale, per cui «picchiare un ragazzo a morte o, non sullo stesso piano, riprendersi sui social mentre si fuma uno spinello, diventa un atto normale», prosegue l’esperta.
Trovare le cause psicologiche precise non è facile. L’influenza del micromondo familiare è «predominante e primaria» così come non aiuta una società esterna, virtuale e fisica, fatta di «esempi devianti e violenze di ogni genere», ripete la psicologa. Una palestra di criminalità, però, è possibile individuarla nelle carceri minorili. E la conferma arriva da un membro della gang fiorentina. «Sono stato in carcere per cinque mesi, mi hanno beccato per tre volte a rubare e non avendo un posto sicuro dove vivere sono finito dentro in custodia cautelare. All’interno mi sono fatto nuovi amici che mi hanno inserito nel loro giro di fornitori: adesso riesco a guadagnare anche 1.500 euro al mese», dice Youssef, un diciottenne del Marocco.
I minorenni e i giovani adulti presenti nelle strutture residenziali sono 1.345, divisi in quattro tipologie di strutture: le comunità private (1.008 ospiti), gli istituti penali per minorenni (319), le comunità ministeriali (17) e i centri di prima accoglienza (1). Come Youssef, secondo i dati raccolti dal V Rapporto Antigone sugli Istituti penitenziari minorili (Ipm), il 72 per cento dei ragazzi entrati in Ipm è in custodia cautelare. Solo il 17 per cento dei detenuti ha compiuto reati contro la persona, i più gravi, mentre il 62 per cento ha commesso illeciti contro il patrimonio: furti, rapine, estorsioni, riciclaggio. Il ricorso ai 17 istituti penali, pertanto, nonostante l’Italia si basi sul “principio della residualità”, non è così raro.
Centinaia di ragazzi che alla pari di Youssef sono entrati negli Ipm per scontare la pena e rimediare agli errori commessi, si ritrovano così in una bolla corrosiva abitata fino a pochi anni fa quasi esclusivamente da «bande di figli di migranti di terza o quarta generazione, provenienti dall’America latina», dice Corrado Sabatino, membro del sindacato della polizia penitenziaria (Uilpa) e agente in servizio per 23 anni nei carceri minorili di tutta Italia.
A Milano per esempio erano presenti, e continuano a esserlo, le “maras” salvadoregne, come la MS13 e il Barrios 18, mentre adesso le «baby gang italiane nascono, si fortificano ed evolvono all’interno degli stessi istituti penitenziari per minori», conclude Sabatino: «Qui il giovane boss omicida, viste le dimensioni ridotte delle carceri, convive con chi è autore di furto o scasso. E così diventa in breve tempo un affiliato o un corrispondente per i traffici illeciti».