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Il green deal fa flop, sfuma la riforma dell'agricoltura sostenibile

I paesi membri - Italia in testa - hanno votato contro la Farm to Fork, il piano europeo per ridurre l'inquinamento provocato da agricoltura e allevamenti intensivi. Intanto nella Bassa Padana la situazione è fuori controllo per colpa delle stalle

L’inquinamento dai campi e dalle stalle
Giorni d’autunno, nella Bassa Padana i campi grondano liquami freschi di stalla. Con gli spandimenti lievitano i livelli di inquinamento dell’aria: le informative giornaliere delle agenzie ambientali segnalano situazioni critiche per le polveri sottili nelle campagne tra Brescia, Mantova e Lodi. Qui si concentra un quarto dei bovini e la metà dei suini allevati in Italia; milioni di capi stipati in stalle gigantesche, da cui esalano quasi 100.000 ton/anno di ammoniaca, un gas che reagisce con i micidiali ossidi d’azoto prodotti dai diesel a formare microcristalli di nitrato d’ammonio, talmente fini da restare sospesi in aria per giorni. 
Lo smog sembra essersi spostato dalle città alle campagne, dove agricoltura e zootecnia intensive sono diventate fonte emissive prevalenti a carico dell’aria, ma anche delle acque – per i carichi di azoto e fosforo, per i pesticidi – e del suolo, alimentando gravi minacce per la salute. È  il caso degli antibiotici veterinari, di cui l’Italia primeggia per consumi: un dato che fa il paio  con la crescita delle infezioni da batteri antibiotico-resistenti, causa di 11.000 morti all’anno solo in Italia.

Effetti collaterali della transizione agroindustriale
Come è potuto avvenire che la terra fertile sia diventata fonte primaria di minacce ambientali e sanitarie? Sono molte le risposte, e ruotano attorno all’imperativo di aumentare le rese. In Europa la PAC (Politica Agricola Comunitaria) è stata lo strumento della transizione agroindustriale, impostata negli anni ‘50 con una missione ardita: garantire cibo a basso costo, per tutti. Una sfida vinta, la riduzione della spesa alimentare delle famiglie è anzi diventata motore dello sviluppo del mercato interno europeo, del miracolo economico degli anni ‘60. Ma quel gagliardo ciclo si è chiuso, lasciando i problemi da gestire: l’intensivazione delle colture ha comportato il drammatico spopolamento delle campagne e delle fragili aree interne, la meccanizzazione ha mortificato il paesaggio agrario e la sua biodiversità, i sussidi PAC in forma di sostegni commisurati alle superfici coltivate hanno favorito (e continuano a farlo) la concentrazione fondiaria, rendendo arduo l’accesso alla terra per i giovani agricoltori. Le riforme intervenute negli anni hanno affrontato in modo parziale queste problematiche, tanto che anche nell’ultimo ciclo di programmazione si è continuato ad assistere ad una forte riduzione dell’occupazione in agricoltura, con il dato paradossale di cinque posti di lavoro persi ogni milione di aiuti erogati. La sicurezza alimentare poi non ha significato autonomia nell’approvvigionamento di materie prime: la zootecnia europea in particolare reclama decine di milioni di ettari di monocolture mangimistiche localizzate in altri continenti, con pesanti impatti locali in termini di deforestazione e inquinamenti.
La PAC è una politica molto ben finanziata, oggi pesa per un terzo dell’intero budget UE: 60 miliardi l’anno che impattano anche nel sistema del commercio globale, dove i sussidi diretti a produttori di beni di consumo risultano sempre meno digeribili.

Deludenti tentativi di riforma per la PAC
Con la riforma PAC 2014-2020 si è tentato di introdurre correttivi per migliorare la sostenibilità ambientale nelle pratiche agricole – il cosiddetto greening – con quote di aiuti dedicati: un ottimo proposito coronato da totale fallimento, certificato dalla Corte dei Conti Europea, a causa dell’incursione delle lobby agroindustriali nell’ambito del negoziato, che ha annacquato le misure fino a renderle inefficaci. 
Il cambiamento necessario, nel frattempo, è stato consolidato e puntellato da accordi e target definiti a livello internazionale: dall’Agenda 2030 dell’ONU all’accordo sul clima di Parigi, è emersa in modo sempre più evidente la centralità delle politiche agricole e alimentari per riportare l’umanità entro una ‘zona sicura’ nella conclamata crisi climatica. La Commissione Juncker, nel cui mandato è stata definita nel 2018 la proposta di regolamento per la nuova PAC, ha promosso una vasta consultazione dei cittadini, che ha visto prevalere la richiesta di una politica che premiasse la sostenibilità ambientale e la salubrità nella filiera del cibo. Si consolidava così l’orientamento già adottato dalla Commissione, verso il superamento del sistema di sussidi, con lo slogan ‘Public money for public goods’: aiuti pubblici devono essere destinati ad azioni che generino un verificabile beneficio collettivo. 

Von der Leyen e il naufragio dell’European Green Deal
La Commissione a guida Von der Leyen ha raccolto la proposta di regolamento del 2018 e l’ha riposizionata su obiettivi più ambiziosi, incasellando la PAC nel Green Deal attraverso due strategie, presentate a maggio: Biodiversità 2030, che prevede tra l’altro di destinare almeno il 10% del territorio agricolo ad aree per la conservazione delle specie selvatiche; e Farm to Fork (dal campo al piatto), che introduce target importanti di riduzione degli input di fertilizzanti sintetici (del 20%), dimezzamento dell’uso di pesticidi pericolosi e antibiotici veterinari, e crescita  del territorio agricolo a conduzione biologica fino al 25% della superficie agricola europea. 

Evidentemente troppo per le lobby agroindustriali che cingono l’assedio permanente alle istituzioni europee e ai ministeri degli Stati Membri. Il risultato della loro pressione è ben leggibile nell’architettura dell’accordo trasversale con cui le maggiori famiglie politiche dell’Europarlamento (Socialisti e Democratici, Partito Popolare Europeo e liberal di Renew) hanno portato al voto un pacchetto di emendamenti che non solo ha fatto strame dei target del Green Deal, ma ha annacquato anche il regolamento del 2018, riportando le lancette della PAC indietro di un decennio: gli ecoschemi che avrebbero dovuto essere la più forte innovazione, trasformati in una cattiva copia del vecchio greening, il rinvio dell’entrata in vigore a regime degli aiuti ambientali rinviato al 2025, l’indebolimento della ‘condizionalità ambientale’ (ovvero l’obbligo di rispettare norme e buone pratiche agronomiche) riducendo al 3% la quota di territorio da destinare ad ecosistemi naturali e consentendo la trasformazione in seminativi di preziose aree di pascolo e prateria, la riduzione della quota di spesa per interventi climatico-ambientali a valere sul fondo per lo sviluppo rurale, il mantenimento di sussidi nocivi, come i pagamenti accoppiati collegati al numero capi allevati.

Un arretramento di proporzioni inedite nella storia dell’UE, in cui è emersa fortemente la pressione degli Stati Membri, in gran parte ostili all’innalzamento dei requisiti ambientali della riforma, che ha visto l’Italia giocare da posizioni di profonda retroguardia con richieste di azzeramento del pilastro ambientale della riforma e la Ministra Bellanova, che già più volte aveva dichiarato che il Green Deal non dovesse essere pagato con i soldi ‘degli agricoltori’, il 19 ottobre, a margine del Consiglio dei Ministri Agricoli, scriveva nero su bianco la sua contrarietà a ‘fissare a priori una percentuale di risorse dei Pagamenti Diretti da destinare agli eco-schemi’.

Forte è stata la reazione di sdegno delle organizzazioni ambientaliste e dei movimenti, in Italia come in tutta Europa, con lo slogan #VoteThisCAPdown, ovvero la richiesta di restituire i regolamenti alla Commissione perché ne elaborasse una versione avanzata e in linea con gli obiettivi del Green Deal. Purtroppo fare arrivare la voce dei cittadini ai parlamentari europei non è bastato: il 23 ottobre il Parlamento ha votato i regolamenti che, a detta della coalizione italiana Cambiamo Agricoltura, rappresentano ‘una pietra tombale sull’avvio di una vera transizione ecologica delle filiere agricole e zootecniche in Europa”. Ora la palla passa al negoziato finale tra le istituzioni comunitarie, la Commissione, il Parlamento e il Consiglio. Un negoziato che, purtroppo, si avvia sotto pessimi auspici.


*coordinatore Comitato Scientifico di Legambiente
Coalizione Cambiamo Agricoltura

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