Sequestrati immobili, conti e un quinto delle retribuzioni di 14 ex manager, tra cui l'attuale numero 1 di Finmeccanica-Leonardo: lo ha deciso il tribunale che sta processando i banchieri per il crack Divania, un'industria di Bari rovinata dai derivati. Bloccati beni per 40 milioni fino alle eventuali condanne per bancarotta
L'amministratore delegato della prima industria militare italiana Alessandro Profumo ha lo stipendio pignorato. E i suoi ex colleghi banchieri hanno pure le case sotto sequestro.
L'inatteso provvedimento giudiziario ha colpito quattordici manager che guidavano Unicredit negli anni del boom dei derivati: prodotti finanziari ad alto rischio, che prima della crisi venivano venduti dalle più importanti banche italiane e straniere per cifre imponenti. Contratti molto complessi, paragonabili a scommesse economiche, che hanno minato i conti di migliaia di imprese private e amministrazioni pubbliche di tutta Italia. In uno dei casi più gravi, il proprietario di un'industria pugliese rovinata dai derivati ha reagito con una denuncia penale, dopo aver video-registrato di nascosto i suoi incontri cruciali con i funzionari di Unicredit.
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L'indagine della Guardia di Finanza, coordinata dal pm Isabella Ginefra, ha superato il primo esame nel febbraio scorso: il giudice dell'udienza preliminare ha rinviato a giudizio i dirigenti di Unicredit in carica all'epoca dei fatti, tra cui spiccano l'ex amministratore delegato Federico Ghizzoni e il suo predecessore Alessandro Profumo, che dal 2017 guida il gruppo Leonardo (l'ex Finmeccanica), il colosso nazionale delle armi, elicotteri e tecnologie per la difesa. Ora i banchieri si ritrovano così imputati di bancarotta fraudolenta davanti al tribunale di Bari, dove aveva sede Divania, che prima della crisi dava lavoro a più di 400 operai, vendeva i suoi divani in pelle anche all'estero, soprattutto negli Stati Uniti, e non aveva mai avuto problemi di liquidità. Secondo l'accusa, i guai sono cominciati proprio con l'esecuzione dei derivati: una successione di oltre duecento contratti-fotocopia siglati dal 2000 al 2005, con rinnovi continui ad ogni scadenza per rinviare l'emersione delle perdite, che intanto diventavano sempre più gravi.
L'accusa di bancarotta è legata alla scoperta che la banca avrebbe «manipolato e falsificato» i contratti, truccando le date e i contenuti di molti atti, di cui risultano scomparsi gli originali. Il titolare di Divania, inoltre, sarebbe stato «ingannato» sulla struttura stessa dei derivati, che gli venivano presentati come «strumenti di copertura contro i rischi di cambio del dollaro», mentre in realtà erano complicatissime «combinazioni di contratti di opzione», occultandone così «la natura speculativa», come scrivono i giudici: in altre parole, si trattava di pericolose scommesse finanziarie, proposte e gestite dalla stessa banca che poi incamerava commissioni e profitti a danno del cliente.
Tutti gli imputati respingono le accuse. In particolare i legali di Unicredit sostengono, anche nelle parallele cause civili in corso da anni, che il fallimento dell'azienda pugliese non sarebbe stato provocato dai derivati, ma da una contemporanea crisi di mercato. E giustificano le date non vere e i contratti mancanti come «mere incongruenze documentali», dovute a «deprecabili imprecisioni e reiterate disattenzioni» dei funzionari della banca: «errori» che non proverebbero nulla di illecito, in quanto lo stesso cliente, cioè Divania, avrebbe «tollerato tale prassi», accettando l'esecuzione dei derivati «imprecisi».
Due mesi fa, quando si è aperto il processo penale, il titolare dell'azienda danneggiata, Francesco Saverio Parisi, che si è costituito parte civile con l'avvocato Maurizio Altomare, ha chiesto il «sequestro conservativo» dei beni degli imputati, per garantirsi i futuri risarcimenti in caso di condanna dei banchieri. E la seconda sezione penale del tribunale di Bari (presidente Mascolo, giudici a latere Moretti e Mastromatteo) ha accolto l'istanza di misura cautelare di tipo patrimoniale. Nel provvedimento intestato ai 14 banchieri, di cui l'Espresso ha ottenuto copia, si legge che il tribunale «dispone il sequestro conservativo dei beni immobili di proprietà degli imputati, cosi come risultanti dalle visure catastali allegate, nonché dei beni mobili e dei conti correnti postali o bancari intestati ai medesimi, ovunque accesi, nonché di eventuali depositi titoli e strumenti finanziari», fino a raggiungere «la complessiva somma di 40 milioni di euro».
Dagli atti del catasto, aggiungono i giudici, «si evince che il valore degli immobili di proprietà degli imputati appare insufficiente a garantire l'adempimento» del totale dei risarcimenti rivendicati dalla parte civile. Di conseguenza, il tribunale «dispone altresì il sequestro conservativo, nella misura di un quinto, degli emolumenti» derivanti da «retribuzioni o pensioni» che verranno incassati durante tutto il processo dagli stessi imputati.
Il sequestro conservativo non è un esproprio e non presuppone un giudizio di colpevolezza: impedisce solo di vendere o donare i beni, per garantire gli eventuali risarcimenti alle vittime del reato, che diventeranno effettivi solo in caso di condanna. Le carte allegate mostrano che il provvedimento colpisce, in pratica, il 50 per cento di una villa in Versilia dell'ex banchiere Ghizzoni (non l'altra metà, intestata alla moglie) e numerosi appartamenti o quote di immobili, tra Milano, Liguria e Val d'Aosta, di proprietà di Luca Fornoni e Davide Mereghetti, i manager della finanza che dirigevano la cosiddetta “factory”, la fabbrica dei derivati del gruppo Unicredit. Casa congelata anche per gli altri imputati con cariche minori. Per Profumo, invece, il blocco giudiziario riguarda solo un quinto dello stipendio (il limite massimo consentito dalla legge) e i conti bancari che verranno via via identificati dalla parte civile: il top manager, infatti, non risulta proprietario di alcun immobile. Stando alle visure catastali, l'attuale numero uno di Leonardo non ha niente di intestato, neppure una prima casa o un box per auto.
Nel decreto di rinvio a giudizio, Profumo è chiamato in causa come ex amministratore delegato di Unicredit e presidente della controllata Ubm: secondo l'accusa, era lui che «elaborava, dirigeva e coordinava le strategie di commercializzazione dei derivati alle imprese clienti della banca, tra cui Divania spa». L'accusa si fonda anche sui risultati di un'ispezione della Consob, che nel 2007 aveva multato l'intero vertice di Unicredit proprio per gli affari con i derivati, chiusi con perdite gravi a carico di un totale di 12.700 aziende italiane. L'ex banchiere Ghizzoni, invece, è finito sotto accusa «per non aver adempiuto alla diffida, inviatagli nell'aprile 2011, a restituire le somme sottratte a Divania con i derivati». Per provare che il capo della banca sapeva del problema pugliese, l'imprenditore Parisi ha spedito quella raccomandata direttamente a lui.
Proprio le somme rivendicate con quella diffida sono al centro dell'accusa di «bancarotta distrattiva aggravata»: attraverso i derivati, Unicredit ha potuto prelevare più di 183 milioni di euro direttamente dal conto di Divania «senza l'autorizzazione del correntista», come precisano i magistrati nel rinvio a giudizio, «compresi 34 milioni addebitati» addirittura «in assenza dei contratti» (gli atti che risultano «scomparsi o mai esistiti»). In questo modo la banca, secondo l'accusa, ha scavalcato e danneggiato tutti gli altri creditori della società fallita, in particolare i fornitori, con ripercussioni negative anche su altre imprese collegate.
Il provvedimento di sequestro conservativo ha una particolarità anche giuridica: i beni bloccati vengono destinati non alla società fallita, ma personalmente a Parisi, che era titolare del 99,5 per cento di Divania spa, per compensare «il depauperamento del proprio patrimonio» derivante dalla perdita di valore delle sue azioni dopo il dissesto aziendale collegato ai derivati.