Il Nordovest della Lombardia è la nuova prima linea nella lotta contro il virus. In una delle zone più ricche d’Italia, la sanità pubblica rischia di essere travolta. Ma il governatore anziché inviare rinforzi sollecita, e ottiene, truppe fresche per il padiglione della Fiera di Milano destinato alle terapie intensive voluto a tutti i costi da lui e dall'assessore Gallera

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Nelle giornate buone dall’ultimo piano si vedono nitide le Grigne e, a un passo, il Resegone dei Promessi Sposi; nelle giornate ottime spuntano i profili della Grivola e i quattromila del Gran Paradiso, in Piemonte; ma nelle giornate faticose come queste in pochi hanno voglia di guardare le montagne dalle finestre dell’ospedale di Monza. Una delle città dal Pil più alto d’Italia, provincia cresciuta in competizione col mondo a forza d’export di divani e lampadari, di elettronica e macchinari, si scopre fragile. Oggi è qui l’epicentro del contagio. La Brianza condivide con Varese il triste primato dell’epidemia di Covid in Lombardia, zone rosse già di fatto prima del Dpcm del 4 novembre, legate a stretto giro con la sofferenza di Milano, in un’unica grande città metropolitana che dalla pianura si estende verso nord fino al confine con la Svizzera, in un groviglio di strade, palazzi, fabbriche, uffici e centri commerciali che ne fanno una delle zone più densamente popolate e ora contagiate d’Italia.

La scorsa primavera, l’onda in piena della pandemia aveva travolto i territori più a est, Bergamo e Brescia. Nella provincia di Varese tra marzo e aprile i casi di Covid censiti raramente hanno superato il 5 per cento del totale regionale. Adesso invece il numero dei positivi al tampone si è moltiplicato: dai 150 dei primi sette giorni di ottobre a quota 7 mila nella settimana che si è chiusa il primo novembre. Un incremento molto più rapido di quello registrato nel resto della Lombardia, dove si è passati da 1.800 a 45.200 positivi. Anche nella provincia di Monza e Brianza la curva si è impennata: i contagi registrati ogni sette giorni sono aumentati di oltre 30 volte, dai 250 di un mese fa fino agli 8 mila della settimana di Ognissanti.

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Il bollettino sanitario traduce in numeri le sensazioni e i racconti degli abitanti. La sera del 2 novembre una coda di auto di quasi un chilometro si snodava in attesa all’ingresso del nuovo centro tamponi allestito dalla protezione civile fuori Varese. A Merate, 14mila abitanti in Brianza, il piccolo ospedale locale aveva accolto i malati da Bergamo ma durante l’estate era diventato un centro “free”, libero dal Covid: è rimasto tale pochi mesi. Ora si sta trasformando per ospitare in tutti i suoi 140 letti persone che hanno bisogno d’ossigeno a causa del virus.

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La pressione dei nuovi arrivi costringe le strutture a rivoluzionare l’organizzazione per garantire cure e a trovare sempre nuovi spazi dove poter trasferire i malati. «Nell’ultima settimana abbiamo dovuto smontare un reparto ogni mattina per convertirlo a Covid e ricoverare i 35 nuovi pazienti che arrivano ogni giorno al Pronto Soccorso», racconta Mario Alparone, il direttore generale dell’ospedale San Gerardo di Monza. A Varese, l’ospedale di Circolo, scelto dalla Regione come Covid-hub, durante la prima ondata aveva accolto decine di malati provenienti dalle altre province lombarde. In questi giorni invece medici e infermieri devono gestire l’ondata dei contagi nel centro-nord della provincia, dal confine svizzero al Verbano e più a sud lungo la valle del fiume Olona. Il 22 ottobre si contavano un centinaio di ricoverati. Una settimana dopo erano già raddoppiati e martedì 3 novembre i letti destinati ai malati di Covid hanno raggiunto quota 406 con 29 degenti in terapia intensiva. «Ancora qualche giorno e qui non ci sarà più spazio per nuovi ricoveri», prevede un infermiere che chiede di restare anonimo perché, dice, «non voglio guai con la direzione». Restano una cinquantina di letti, non di più. Finora l’emergenza è stata affrontata riorganizzando alcuni reparti. Il centro traumi è stato trasferito da Varese al Galeazzi di Milano, struttura privata del gruppo San Donato. Sospese le urgenze neurochirurgiche così come la neurorianimazione, destinata ai casi più gravi di Covid. E anche nel sud della provincia, negli ospedali di Busto Arsizio, Gallarate, Saronno e Tradate le visite in ambulatorio sono state in gran parte rinviate.

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Nel frattempo, per far fronte all’ondata di nuovi pazienti è stato riconvertito l’ospedale di Angera, sul lago Maggiore, che dispone di 75 posti letto mentre quello di Luino, poco più a Nord, si prepara ad aprire le porte ai contagiati. Anche Monza ha attivato da subito una rete per i trasferimenti ospedalieri. Negli ultimi giorni di ottobre oltre 120 pazienti hanno trovato posto altrove: a Vimercate e in altri presidi della zona. «Ovunque ci diano disponibilità», dice Alparone. Finché ci saranno zone meno colpite e riusciremo a dare spazio ai malati, reggeremo». E poi? «Noi in questo momento riusciamo ad avere una visione solo giorno per giorno. Una strategia che arriva alla settimana, al massimo, non ci possiamo permettere di più», spiega. «Abbiamo 400 pazienti Covid ricoverati in questo momento su 600 posti letto».

Considerando che alcuni settori non Covid non possono chiudere perché servono ad affrontare urgenze come ictus, infarti, oncologia, nefrologia, traumi gravi, lo stress sulla tenuta del sistema è evidente, e fa paura. Essere al centro della tempesta comporta nuovi rischi da affrontare: «In questo momento abbiamo 250 operatori assenti perché in malattia; 250 su 4.800 dipendenti dell’ospedale. Sono contagi in ambiti familiari», dice il direttore: «Ma l’impatto sulla struttura è evidente». I letti per i nuovi malati si possono in qualche modo rimediare, almeno per i pazienti che non sono destinati alla terapia intensiva. La penuria di infermieri esperti e di medici specialisti è invece quasi impossibile da risolvere nei tempi stretti richiesti da un’emergenza senza precedenti.

A Varese attendono a giorni i neolaureati del corso in scienze infermieristiche. Una trentina di giovani, ovviamente inesperti, che dovrebbero prendere i posti lasciati liberi dai colleghi trasferiti nei reparti Covid. Intanto, da giorni ormai, il personale in servizio si alterna su turni di 12 ore. Si pensa anche ad aprire l’ospedale di Cuasso al Monte, una ventina di chilometri a nord del capoluogo, non lontano dal confine svizzero. Era già successo in primavera, quando questa struttura, in gran parte inutilizzata in tempi ordinari, aveva garantito una trentina di letti per malati non acuti. Sul piano logistico, quindi, non sarebbe un gran problema, se non fosse che manca il personale per rimettere in funzione i reparti di Cuasso chiusi mesi fa, al termine della prima emergenza.

Intanto la Regione, invece di inviare rinforzi sollecita truppe fresche per il padiglione della Fiera di Milano destinato alle terapie intensive  voluto a tutti i costi dal presidente Attilio Fontana e dall’assessore al Welfare, Luigi Gallera. Le Ats (Aziende tutela della salute) lombarde sono quindi caldamente invitate, un invito che non si può rifiutare, a distaccare personale presso la nuova struttura milanese.

Lunedì 2 novembre, dall’ospedale di Varese già in grande affanno, sono partiti 18 infermieri, sette anestesisti e cinque specializzandi guidati dal primario di cardiorianimazione. Dovranno gestire 14 postazioni di terapia intensiva, con l’aiuto di un’altra squadra di professionisti. Monza invece ha mandato 16 medici e 48 infermieri che si occuperanno di 16 letti. Tutti dipenderanno da un’unica cabina di regia, certo, ma la coperta resta sempre troppo corta. E alla fine succede che i posti supplementari creati dal nulla nei padiglioni della Fiera sottraggono risorse preziose alle altre province.

Mai come in queste settimane si sente la mancanza delle migliaia di medici e, soprattutto, infermieri lombardi che hanno trovato posto negli ospedali svizzeri. Un esercito di frontalieri che in Canton Ticino riesce a guadagnare il doppio e spesso il triplo rispetto agli stipendi dei loro colleghi che lavorano in Italia. Non per niente a Lugano, già durante la prima ondata, c’era addirittura chi temeva che il governo di Roma avrebbe precettato il personale medico impegnato dall’altra parte del confine, un provvedimento che avrebbe provocato il collasso della sanità nel sud della Confederazione, dove almeno il 40 per cento di posti della sanità è occupato da stranieri. La precettazione temuta dagli svizzeri è ovviamente del tutto improbabile, se non impossibile, e la sanità lombarda è costretta ad arrangiarsi. Gli investimenti dettagliati nel “Piano di riordino della rete ospedaliera” varato a giugno dalla giunta Fontana con l’obiettivo, tra l’altro, di «fronteggiare adeguatamente le emergenze pandemiche» sono rimasti in gran parte sulla carta. Gli interventi sono stati pianificati su un orizzonte di mesi, se non di anni. Scadenze troppo lontane nel tempo per farsi trovare pronti ad affrontare l’offensiva autunnale del virus. «Gli ospedali e le strutture di tutta la regione devono rendersi disponibili», ribadisce Ernesto Contro, primario del Pronto Soccorso monzese: «Va preteso che tutti collaborino». Compresi, è sottinteso, anche i privati, che in Lombardia hanno margini d’intervento ben superiori a qualunque altra regione.

Sarà una maratona, dice Contro: «Non possono immolarsi in pochi. Serve una buona organizzazione, che permetta al personale di riposare. Preparandosi a lavorare per mesi». E serve soprattutto lo sforzo delle comunità, dei cittadini. «Mi sembra che questa volta l’hashtag #iorestoacasa non vada granchè di moda», dice sconsolato Contro. Eppure, l’unico modo per permettere al sistema di resistere, ripetono i medici, è fermare il contagio prima che si trasformi in un’onda di piena che investe gli ospedali. In queste settimane, però, lontano dalle corsie e dalle terapie intensive, la battaglia contro il virus non mobilita più come un tempo. Domenica nel centro di Monza la passeggiata che porta dall’Arengario ai negozi sul pavé era coperta di persone. Roberto Corti, il sindaco di Desio, uno dei comuni più colpiti in Brianza, dice: «Forse i cittadini cercano in questo modo di esorcizzare il rischio di un nuovo lockdown. Anche da noi in centro ce n’era di gente in giro questo weekend». Per Corti il problema rimane il ritardo che già la prima ondata aveva rivelato: «La medicina del territorio, massacrata per anni».

Non è facile recuperare la vicinanza perduta in poco tempo, rincorrendo un contagio che da solo non ha intenzione di fermarsi o rallentare. Non c’è ospedale lombardo che non stia concentrando oggi enormi sforzi nella realizzazione di servizi di telemedicina, ovvero in strumenti per monitorare e tenere sotto sorveglianza medica i pazienti a distanza, da casa, senza doverli ricoverare se non quando è assolutamente necessario. A Lecco è stata avviata da tempo una piattaforma - Difraweb - che può tenere tracciati in tempo reale, attraverso un’app, i valori di centinaia di assistiti. Nella provincia di Varese le Usca - Unità speciali di continuità assistenziale - sono attive da aprile. Gli arruolati continuano a crescere: dei 52 previsti ad agosto si è arrivati a 88, impegnati a monitorare i malati cercando di portare anche supporto psicologico. «Ma le Usca sono ancora troppo poche», protesta Samuele Astuti, consigliere regionale del Pd eletto in provincia di Varese.

Tutti i territori provano ad arruolare le cooperative di medici di base e aumentare gli investimenti per infermieri di famiglia e personale di contatto. Qualsiasi cosa, pur di assistere i malati senza doverli ospedalizzare. Ma il problema resta sempre lo stesso: la carenza di personale. E poi l’argine collettivo, quello dei comuni cittadini, all’epidemia. Senza controllo del contagio - attraverso le scelte di politica pubblica, finché non saranno disponibili vaccini o cure solide in tempi certi - non ci sarà mai servizio o struttura capace di far fronte da sola al virus.