Il punto di non ritorno è il 10 ottobre, ma la politica ha reagito solo la settimana dopo, in manera insufficiente. Oggi gli ospedali in trincea e molti medici si sono ammalati. E la capitale lombarda anticipa il dramma che sta investendo l'intero Paese

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Il giorno in cui tutto è cambiato, a Milano e in Lombardia, è il 10 ottobre. È il giorno in cui medici, tecnici e ricercatori si sono resi conto che il virus, che non se n’era mai andato, stava dilagando nel territorio a una velocità di molto superiore al previsto. La seconda ondata nel capoluogo non inizia quindi il 16 ottobre, quando viene firmata la prima ordinanza del presidente della regione. Non comincia nemmeno il 18, quando parla in conferenza stampa nazionale il premier Conte. E di certo non il 22, quando nella zona più popolosa e produttiva del Nord Italia scatta il coprifuoco del compromesso. Inizia il 10 ottobre, una data passata in silenzio, ma cruciale per capire quello che è successo nella settimana che sta determinando le sorti di dieci milioni di abitanti, di migliaia di contagiati, e soprattutto di migliaia di medici, infermieri, personale delle pulizie e tecnici ospedalieri che da quel momento devono correre sempre più veloce, per poter aiutare i malati che arrivano come marosi nei pronti soccorso. Persone che fanno fatica a respirare, in carenza d’ossigeno, che hanno bisogno immediato di assistenza.

È difficile sbagliarsi, guardando i grafici che da settimane tecnici e amministratori d’Italia osservavano inquieti per stabilire quando e come intervenire per evitare il peggio, nell’epidemia. Il 10 ottobre per la Lombardia il peggio, di fatto, è ormai cominciato. Da quel momento ogni serata non fa che contribuire allo scivolamento delle province di Milano, Varese, Monza-Brianza e Como in uno scenario da cui riprendersi sarà difficile. Sarà possibile, gestendo bene le cose, certo. Ma difficile. Perché quando il 18 ottobre vengono introdotte le prime misure è di fatto tardi. La scala dell’evoluzione del contagio ha preso ormai una curva che si impenna stabilmente. Qualsiasi intervento, che resta comunque necessario e urgente, non può più impedire la tracimazione del contagio. È già avvenuta.
Attilio Fontana

L’amministrazione di salute pubblica può provare a frenare l’epidemia, a quel punto, ma non più a sbarrarla. Nella settimana fra il 12 e il 18 ottobre, come dicono i tecnici, si è passati cioè dalla possibilità di controllare il contagio, a quella di cercare di mitigarlo. La gestione è ancora possibile, è (forse) sempre possibile, ma a un costo umano più alto.

Editoriale
L'incubo (di Marco Damilano)
23/10/2020
I dati sui contagi iniziano a preoccupare epidemiologi e medici lombardi che partecipano al Comitato tecnico scientifico già a metà settembre. L’andamento dei positivi e dei ricoveri va aumentando. «Verso la fine di settembre la curva di Milano comincia a salire in modo esponenziale», spiega Alessia Melegaro, direttore del Covid crisis lab della Bocconi e una delle epidemiologhe esperte del Comitato consultivo lombardo. Presto la curva diventa ripida. L’8 ottobre ci sono 23 ricoverati in Lombardia. Il dieci sono saltati a 37. Il 13 sono già 95. Il 17 diventano 134. Bisogna guardare la progressione, più che il numero in sé, per capire lo scenario di domani. E la progressione è aggressiva. Lo stesso vale per le terapie intensive. Il modello presentato ai decisori nella settimana che porta alla decisione del coprifuoco prevede un picco di 600 ricoverati in terapia intensiva in Lombardia alla fine del mese. Considerando che in tutta la regione i posti sono 900, fra pubblici e privati, e che in media sono occupati (per altre malattie), al 70 per cento, l’impatto non lascia dubbi. Il rischio, è noto, è quello del sovraccarico. Per tutti i pezzi della struttura; dall’intasamento delle linee telefoniche per l’emergenza o il medico di base, all’attesa delle ambulanze per poter affidare i malati, ai reparti di media degenza, alle intensive. La massa si abbatte.
Giulio Gallera

Mentre la percezione collettiva è ancora vaga, gli operatori addetti al contact tracing iniziano a perdere il filo diretto dei positivi da isolare. Il 10 ottobre la Lombardia segna 1.140 contagiati. Più del doppio di quanti erano stati registrati due giorni prima. Il 15 ottobre sono diventati 1.832. il 21 sono 4.126. A Milano per tracciare i contatti sono arruolate 200 persone. Impiegano in media tre/quattro ore di telefonate per ogni contagiato: a ricostruire la rete di contatti, fare l’indagine epidemiologica, chiamare le persone indicate, capire come stanno, se hanno sintomi, e completare il quadro. Fanno 3.500 ore di lavoro solo per i nuovi contagi, già il dieci ottobre. Con i focolai che si moltiplicano ogni mattina. È evidente che senza uno sforzo eccezionale nell’arruolamento di personale esterno al Servizio sanitario nazionale, di assistenti o di operatori in massa (sul modello di quanto sta chiedendo la Germania, con il reclutamento di diecimila nuovi addetti), continuare a coprire la propagazione dell’infezione, isolando individualmente i contatti, diventa partita impossibile.

La prima riunione del Cts con l’assessorato regionale è martedì 13 settembre, nel pomeriggio. Poco dopo l’incontro, Regione Lombardia pubblica un comunicato stampa sereno. «Il confronto sul Coronavirus tra i rappresentanti istituzionali della Regione e il Comitato Tecnico Scientifico della Lombardia si conferma sempre utile, proficuo e interessante», scrive l’assessore Giulio Gallera. Il 16 ottobre il Comitato si riunisce nuovamente. I toni di tutti sono più duri. La preoccupazione ha superato ogni possibilità di attesa. Il Cts chiede compatto delle misure di contenimento immediate.

Inchiesta
Le promesse mancate e i fallimenti del commissario Domenico Arcuri
23/10/2020
La prima ordinanza del governatore Attilio Fontana è del 16 ottobre stesso. L’aggiornamento arriva poco dopo, seguendo il Decreto del presidente del consiglio Giuseppe Conte, e contiene disposizioni che saranno attive dal 22 ottobre: coprifuoco dalle 23 alle 5, restrizioni su bar, ristoranti e attività sportive, oltre alla possibilità di concordare con le amministrazioni comunali la chiusura dei centri commerciali nel weekend. Sono misure importanti. Ma non bastano a fermare l’impennata dell’epidemia, spiega all’Espresso Fabrizio Pregliasco, virologo dell’università degli Studi di Milano, e uno dei componenti del Comitato tecnico scientifico della Lombardia. «Venerdì 16 ottobre i modelli presentati al consiglio tecnico scientifico non hanno lasciato più alcun dubbio. La situazione era davvero piuttosto drammatica. Una diffusione e una pervasività dei casi che...». Pregliasco quasi si interrompe. Ha la voce gravata dal peso di quanto sta accadendo. Ormai, dice, non servono nemmeno più i dati, per percepire la faglia aperta dal virus nell’autunno lombardo. «Veramente, lo vedo dai collaboratori in ospedale. Che sembra si siano infettati in casa, nella comunità, attraverso i parenti... è una situazione che deborda, ecco, che rischia di debordare». «Per questo abbiamo richiesto un’azione tempestiva dalle istituzioni», continua: «Capisco il valore simbolico del concetto di coprifuoco. Ma ora dobbiamo ridurre i contatti inutili. Tenere solo quelli essenziali». Abbiamo visto quello che è successo ad Alzano, Nembro, rispetto al lodigiano, chiedo, dove la zona rossa era stata istituita immediatamente. Sono bastati pochi giorni di ritardo perché il contagio dilagasse in maniera incontrollata, con le conseguenze che conosciamo. Secondo lei, chiedo martedì mattina, siamo a prima di quei giorni o in mezzo? «Siamo in mezzo».

Lo scenario cupo che per i medici e i ricercatori in quel momento è già netto, non lascia dubbi sull’esigenza di agire immediatamente per impedire che la scala della pandemia sovrasti di troppo la capacità di risposta pubblica alla malattia. Ma non è ancora così netto però per il compromesso politico. Durante una riunione fra la Regione e gli amministratori locali, lunedì pomeriggio, prevale la linea più “soft” del coprifuoco dalle 23 anziché alle 21 come sta accadendo in Francia. È una via di mezzo per salvare le attività economiche.

Il problema è la prospettiva. «Dalla settimana del 13 ottobre come scienziati abbiamo chiesto maggiori misure e ogni giorno, vedendo i dati dei contagi e dei ricoveri, abbiamo fatto ulteriori raccomandazioni», sottolinea Maurizio Cecconi, capo del dipartimento di Terapia intensiva dell’Humanitas, anche lui componente del Consiglio tecnico scientifico lombardo: «Siamo contenti che adesso la politica ci abbia ascoltato».

Il punto è che già non c’è più tempo. Non è più il momento di insistere con i ma, con i “voglio capire”, come avrebbe fatto il leader della Lega Matteo Salvini ritardando le misure volute dalla Lombardia. «Con questa pandemia abbiamo il dovere di restare umili davanti ai dati: quelli di oggi sono diversi da quelli di domani, ma la vera sfida è fare il possibile per anticipare i dati di dopodomani», riflette Cecconi. «Questo virus ci mette di fronte a una realtà che è difficile accettare», spiegava Stefano Paglia, il primario del Pronto soccorso di Lodi e Codogno nel documentario “Lodi primo soccorso”: «Quindi la prima risposta in genere è di rifiuto. È dire: “non è vero”».

Poi, arriva la gestione, e la risposta all’emergenza. Seppur il rischio sia noto ormai, anche questa volta per molti è stato difficile accettare la seconda ondata. «Quello che più mi preoccupa è il ritardo sulla rete territoriale, sia per quanto riguarda l’assistenza di famiglia e di comunità sia per le residenze sanitarie assistenziali», dice Stefania Pace, presidente dell’ordine degli infermieri di Brescia, e membro anche lei del Cts. «Bisogna bilanciare l’aspetto sanitario stretto del Covid con la salute mentale dei cittadini. Per cui è fondamentale che gli spazi sicuri restino aperti: come la possibilità di uscire a correre, o fare sport all’aperto. E la stessa scuola. Il contagio sta avvenendo nelle comunità. Nelle scuole non ci sono cluster importanti. In altre situazioni non è lo stesso», dice Alessia Melegaro, pensando soprattutto ai luoghi d’incontro come bar e ristoranti.

«Capisco il problema economico. Ma i locali aperti oggi sono un rischio. Punto. C’è un livello di interazione che in questo momento non ci possiamo permettere». Pierachille Santus, responsabile del dipartimento di Pneumologia dell’ospedale Sacco di Milano: «In ospedale l’onda ci è arrivata fra il 14 e il 15 ottobre. Prima aveva uno, poi tre, poi cinque pazienti Covid al giorno. Poi sono esplosi. E abbiamo superato i quaranta». Santus dice di capire la difficoltà a bilanciare il rischio sanitario con la minaccia ugualmente critica dell’aumento della povertà, in caso di un nuovo lockdown. «Per noi sanitari la prima ondata è stata un periodo tragico, e adesso siamo di nuovo in condizioni difficili. I malati sono clinicamente gli stessi di allora».

L’appello è alla responsabilità e al senso civico comune. Anche per evitare che gli ospedali, vacillando, si trovino a non poter più trattare non solo l’aumento di pazienti Covid, ma anche chi ha malattie che non spariscono, e che rischiano di non essere trattate per via dell’ingolfamento degli ospedali. «Penso ai tumori al polmone, che nel mio reparto negli ultimi mesi ci siamo trovati a diagnosticare in stadio avanzato perché era impossibile trattarli prima». E la pressione dei nuovi casi, ribadisce, non è la sola minaccia sui reparti. «I colleghi, il personale, comincia ad ammalarsi».

A Milano l’aria si riempie di nuovo di sirene. Con loro il coraggio e la fatica di chi le guida e fa di tutto per far fronte al virus. Sono loro la prima balaustra da proteggere.