Lazio e Lombardia

Regionali, da destra a sinistra più che programmi sono spot

di Loredana Lipperini   9 febbraio 2023

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A pochi giorni dal voto, viaggio, letterario, nelle promesse e nelle intenzioni. Dalla casa alla sicurezza. Dalla sanità ai trasporti. Si annuncia quello che gli elettori vogliono sentirsi dire. Tanto è sempre colpa dei gverni precedenti

A essere Lewis Carroll, sarebbe tutto più facile: potremmo dire, come fa l’autore di “Alice nel paese delle meraviglie” nella “Canzone del giardiniere pazzo”, di aver incontrato un serpente a sonagli che parlava in greco antico e che era già a metà della prossima settimana.

 

I programmi dei candidati alle elezioni regionali sono in parte come il serpente di Carroll: si pongono «a metà della prossima settimana» e dunque insistono su un futuro da riconquistare, ma hanno qualche problema con il greco antico, e questo non ha niente a che vedere con la discussione recente sul liceo classico ma con la capacità di saper narrare esperienza e progettualità.

 

Il giudizio non è politico ma, appunto, narrativo e riguarda il modo in cui le proprie intenzioni vengono raccontate, sia che quel modo sia prolisso (l’equivalente di 28 cartelle fitte per Attilio Fontana, candidato del centrodestra per la Lombardia) o volutamente sintetico come quello di Mara Ghidorzi, candidata per Unione Popolare nella stessa regione, sia che sia dotato di accattivanti finestrelle web (Pierfrancesco Majorino, candidato della sinistra e del Movimento 5Stelle) o di efficienti icone (Letizia Moratti, Terzo polo), sia che rassicuri sul fatto che il candidato è «uno di noi» (Alessio D’Amato, centrosinistra nel Lazio) o che prometta di «ripartire dalla persona» (Francesco Rocca, candidato centrodestra), o di portare «aria nuova» (Donatella Bianchi, Movimento 5Stelle), o di cambiare rotta, passo e facce (Rosa Rinaldi, Unione popolare).

 

Sembrerà strano cercare qualcosa che unisca programmi che per forza di cose devono essere diversi, eppure quel qualcosa c’è: per cominciare, la sindrome di Estragone (che in “Aspettando Godot” di Samuel Beckett aveva quel problemino con le scarpe, tanto da far esclamare a Vladimiro: «Ecco gli uomini! Se la prendono con la scarpa quando la colpa è del piede»). In parole povere significa che tutto quel che è avvenuto prima è da attribuire agli altri: il che in certi casi può essere vero, ma non sempre (perché, a ben vedere, si era comunque presenti e attivi quando quelle colpe venivano commesse).

 

In secondo luogo, e qui andiamo sul facile, si cerca di dire quel che si presume l’elettorato desideri: e dunque si parlerà moltissimo di sanità e di case in Lombardia e di trasporto pubblico e sicurezza sulle strade a Roma, per esempio. Dettagli (ma non troppo): Letizia Moratti indica la famiglia come «insostituibile ammortizzatore sociale, i cui compiti di cura, educativi e di sostegno economico non possono essere demandati ad altri, se non a costi elevatissimi per la collettività».

 

Parole molto simili si trovano nel programma di Francesco Rocca: famiglia come una «rete di tutela, un ammortizzatore sociale, una scuola e un’officina di cittadinanza, un’impresa sociale solidale e produttiva» (sì, è citatissima, ma come si fa a non citarla di nuovo? Margaret Thatcher: «La società non esiste, esistono le famiglie»).

 

I nomi però sono diversi: i punti dei programmi si chiamano, per Attilio Fontana, «pilastri», in numero di sei, dunque il doppio dei pilastri scelti dal Pd alle ultime elezioni politiche (anche in questo caso si può evocare Ken Follett col romanzone su Thomas Becket, “I pilastri della terra”, ma a Enrico Letta non ha portato benissimo), per Moratti sono approfondimenti tematici (undici), per D’Amato bandiere (cinque).

 

Gli slogan hanno ancora una volta diverse affinità, specie nel concetto più usato, cambiare: «La Lombardia cambia» (Majorino), «Per un futuro semplice: ripartire, insieme» (D’Amato), «Direzione futuro» (Rocca), e i già citati «Un’aria nuova» (Bianchi) e «Cambiare rotta, cambiare passo, cambiare facce» (Unione Popolare).

Ora, il cambiamento è faccenda che si evoca spesso. Non solo dalla campagna elettorale di Bill Clinton del 1992, ma dai tempi di Ovidio e delle “Metamorfosi”: «Nulli sua forma manebat», anche se a ben vedere sotto la corteccia dell’alloro c’è pur sempre la fuggitiva Dafne, e questo potrebbe indurre al sospetto che sotto il velo ammaliante del cambiamento si rischia di rimanere identici nella sostanza.

 

Ma non tutti gli slogan parlano di mutazione. Fontana, per esempio, sceglie la parola «orgoglio», e per l’esattezza, «l’orgoglio di fare». Coraggioso: l’accento è sul «fare» e dunque sull’efficienza, ma l’orgoglio è pur sempre luciferino, anche se Jane Austen ha avuto parole in sua difesa: «L’orgoglio si riferisce più all’opinione che abbiamo di noi stessi, la vanità a quella che si vorrebbe che gli altri avessero di noi». Anche qui c’è un’affinità: per l’esattezza con Letizia Moratti, che ha come slogan «Concreta, dinamica e tenace come la Lombardia».

 

Anche la concretezza è faccenda complicata: la frase «risposte concrete a problemi concreti» ha attraversato diversi lustri di campagne elettorali. Ma qui si fan le pulci alle parole, si dirà. Per forza, i programmi di parole sono fatti. Però come sarebbe bello che per una volta si rispondesse come fece Italo Calvino in un’intervista per Rai Tre di Alberto Sinigaglia e di Bruno Gambarotta, che in anni lontanissimi gli chiesero cosa avremmo dovuto portare con noi nel 2000. Intanto, disse Calvino, avremmo dovuto «imparare molte poesie a memoria; da bambini, da giovani, anche da vecchi», e poi fare operazioni di matematica (per essere concreti, appunto). Infine, «ricordarsi sempre che tutto quello che abbiamo può esserci tolto da un momento all’altro». Pensate un programma così, che effetto farebbe. Perché in fondo a questo servono i libri: a riportare alla nostra memoria quante cose passano, e quante, per fortuna, restano.