Novembre è il mese decisivo per valutare l’efficacia degli antidoti su larga scala, in vista della somministrazione  di massa. Negli stabilimenti alle porte  di Roma si lavora per tutta Europa.  Ma si potrà coprire  tutta la popolazione solo nel 2022

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Mai così tanti uomini si sono aspettati così tanto da così pochi. Parafrasando Churchill, oggi l’intera umanità domanda una sola cosa: un vaccino che protegga dal Covid. Come per tutto quello che riguarda la pandemia, siamo davanti a un’impresa senza precedenti: realizzare in una manciata di mesi un lavoro di anni. La corsa all’antidoto è diventata una sfida globale, combattuta senza esclusione di colpi, dagli attacchi informatici al condizionamento diplomatico. Quelle fiale segneranno il futuro del pianeta, determinando i sommersi e i salvati, i vincitori e i vinti della geopolitica di domani. Mentre un popolo unito dalla paura si aggrappa alle notizie sulla sperimentazione, tra segnali di speranza e battute d’arresto.

Sono oltre cento i progetti di ricerca, ma soltanto una decina sono arrivati alla soglia fondamentale: la fase tre, quella in cui si valutano l’efficacia e la sicurezza su larga scala. E novembre sarà il mese decisivo. Questione di giorni e saranno pubblicati i risultati dei consorzi occidentali in pole position: Oxford-AstraZeneca; Pfizer insieme alla tedesca BioNTech e Moderna negli Usa. L’Agenzia europea per il farmaco (Ema) e la Food and drug administration (Fda) statunitense potrebbero così procedere all’approvazione in poche settimane. La concorrenza viene da Cina e Russia, dove si avanza secondo criteri diversi e sono già iniziate estese somministrazioni.
«Noi li stiamo già producendo, così da poterli distribuire alle persone più a rischio appena ci sarà il via libera», spiega Matteo Liguori, amministratore delegato di Irbm, la società italiana che collabora con l’Università di Oxford e la multinazionale AstraZeneca. È uno dei tre vaccini opzionati dall’Ue, con report incoraggianti: ha generato una forte risposta immunitaria negli anziani. Tra poche settimane la sperimentazione arriva anche in Italia e in sette centri ospedalieri stanno già arruolando centinaia di volontari.

All’interno dello stabilimento di Pomezia, 250 ricercatori, oltre 30 assunti nell’ultimo trimestre, lavorano senza sosta, alternandosi su più turni per evitare che un contagio interrompa l’attività. «È così da mesi, ogni sera quando torno a casa mi chiedono a che punto siamo. C’è una grande motivazione», racconta.

Tutta la filiera del vaccino italiana è in un’inaspettata Silicon Valley biotech alle porte della Capitale, dove si concentrano gli sforzi per sconfiggere il virus. A pochi chilometri da Irbm nei laboratori della Takis hanno completato la fase pre-clinica: «A dicembre arruoliamo i primi volontari, abbiamo ricevuto migliaia di richieste. La fase 3 è prevista per giugno; ma se prima pensavamo a una sperimentazione in India, Brasile o Stati Uniti - perché lì erano più diffusi i contagi - ora al centro c’è l’Europa dove la pandemia dilaga e stiamo negoziando un finanziamento con la Commissione», rivela l’amministratore delegato Luigi Aurisicchio, un giovane ricercatore che ha scelto di rifiutare un lavoro ben retribuito all’estero. Praticamente accanto a loro ha sede Reithera: è in attesa dei risultati e se l’efficacia sarà confermata allargherà il numero delle persone per la campagna di test condotta insieme all’Istituto Spallanzani di Roma. Poco più a sud, ad Anagni, nella fabbrica da 30mila metri quadri di Catalent, tutto è pronto per l’infialamento del vaccino di Oxford-AstraZeneca per l’intera Europa. «Da qui usciranno 50 milioni di dosi di vaccino al mese» racconta con orgoglio la direttrice Barbara Sambuco. Solo un anno fa Bristol Myers Squibb ha venduto l’impianto e lei ricorda ancora «i dipendenti in lacrime, i timori per i posti di lavoro. Oggi sono state assunte cento persone, oltre alle 650 già impiegate». Finora l’Italia ha prenotato 70 milioni di fiale. «Ne verranno consegnate circa 10 milioni al mese. Ma per la vaccinazione di massa nel nostro Paese bisognerà attendere giugno 2021», anticipa Liguori di Irbm.

Il vaccino di Oxford-AstraZeneca, come quelli russi arrivati in fase tre, si basa su un virus innocuo modificato geneticamente per assomigliare al Covid e provocare una risposta immunitaria. Invece Pfizer e Moderna hanno scelto un’altra strada: iniettano pezzi del codice genetico del coronavirus, che una volta entrati nell’organismo lo spingono a secernere anticorpi. Infine, due degli antidoti Made in China usano il virus originale ma in una forma attenuata. Capire quale metodo produce i migliori risultati sarà fondamentale.

UNA LUNGA MARCIA
La sperimentazione accelerata fa i conti con l’incognita della durata dell’immunità, alla luce degli ultimi studi che la vedono calare esponenzialmente in chi sopravvive al contagio. La produzione di anticorpi avviene in genere 3-4 settimane dopo l’iniezione e si comincia a ritenere che ci sarà bisogno di un richiamo. Un elemento che, se confermato, renderà ancora più complessa la somministrazione.

Tanti leader, da Donald Trump a Giuseppe Conte, hanno annunciato la disponibilità delle dosi già a Natale. Anche se questa scadenza fosse rispettata, lo scenario sarà molto più complesso. Guido Rasi, da 9 anni direttore esecutivo dell’Ema, ha cancellato le illusioni: «In Europa ci vorrà un anno per vaccinare tutti». In Germania gli esperti del Robert Koch-Institut sono ancora più cauti: «Si potrà contare sulla copertura dell’intera popolazione soltanto per la fine del 2022, ammesso che i vaccini siano disponibili all’inizio del 2021».

Anche quando arriveranno saranno insomma merce rara. Per proteggere i 450 milioni di abitanti della Ue, la Commissione di Bruxelles ha negoziato contratti anticipati per la fornitura di quasi un miliardo di dosi di tre tipi diversi. Ogni stato membro li riceverà in base al numero di residenti e alla gravità dei contagi, al prezzo di circa tre euro a dose. Le prime saranno destinate al personale sanitario, agli anziani, ai lavoratori essenziali e ai gruppi più svantaggiati. L’urgenza è proteggere chi ne ha più bisogno, ma sono raccomandazioni non vincolanti. Solo dopo il vaccino sarà disponibile per il resto della popolazione e per questo nel frattempo si lavora anche agli anticorpi monoclonali, una sorta di scudo a corto raggio.

«Se si somministrano a una persona sana, questa è protetta per sei mesi mentre il vaccino dà una protezione prolungata. I monoclonali saranno parte della soluzione. Da una parte sono una terapia che permette di guarire dal virus, dall’altra possono prevenire l’infezione», spiega Rino Rappuoli, capo della ricerca dell’Imperial College di Londra e padre dei vaccini contro meningococco B, C e pertosse. Il vantaggio di questi strumenti è la rapidità: a partire dal sangue di pazienti convalescenti o guariti, è stata selezionata una “rosa” di tre candidati più promettenti e le prove sull’uomo dovrebbero iniziare a dicembre.

LA SFIDA LOGISTICA
La macchina produttiva sembra pronta a soddisfare tutte le richieste: se non ci saranno ritardi e la materia prima resterà disponibile, entro il 2021 si potranno confezionare 16 miliardi di dosi. Altra storia però sarà consegnarle. Perché senza un coordinamento di spedizionieri, aeroporti, dogane e magazzini per la conservazione i progressi della ricerca rischiano di essere vani. Serviranno spazi refrigerati, in alcuni casi capaci di arrivare fino a settanta sottozero, e occorrerà anche monitorare la temperatura fino all’ultimo miglio per evitare che i flaconi subiscano sbalzi termici letali. In Belgio e in Germania si stanno già dando da fare; negli aeroporti creano depositi e studiano le scorte di ghiaccio secco per i trasferimenti. Il rischio è di farsi trovare impreparati, proprio come per la seconda ondata della pandemia o che si ripeta quanto è accaduto con le mascherine. Per questo l’Associazione delle imprese della logistica sanitaria, che ha tra i suoi iscritti oltre 160 magazzini dislocati sul territorio nazionale, chiede al governo di attivarsi velocemente: bisogna definire spazi, veicoli e sicurezza contro eventuali rapine o assalti.

NON È PER TUTTI
«Per i prossimi 24 mesi le mascherine sono l’unico vaccino per il Bangladesh», ha dichiarato Sayedur Rahman, membro del Comitato Etico della Ricerca Nazionale del Bangladesh. Per molti Paesi le misure di protezione individuali potrebbero essere per lungo tempo l’unica opzione. Non è solo una questione di risorse economiche.

C’è il limite delle reti di distribuzione. In India ad esempio si producono il 60 per cento dei vaccini mondiali, ma in alcune aree l’assistenza sanitaria è minima: un ostacolo fortissimo all’immunizzazione di un miliardo di abitanti. Il Paese ha raggiunto accordi come quello tra il Serum Institute of India e Oxford-AstraZeneca per confezionare le dosi necessarie, ma ha anche proposto all’Organizzazione mondiale del commercio di sospendere i vincoli sulla proprietà intellettuale fino a quando il Covid non sarà sconfitto. Bilanciare il diritto alla salute con le logiche di profitto è un percorso faticoso, come insegna il precedente dei farmaci contro l’Hiv: ci vollero dieci anni prima che fossero commercializzati a prezzi accessibili.

E così nonostante la proposta abbia il sostegno dell’Oms, alcuni governi si sono opposti, sostenendo che lo stesso fine potrebbe essere raggiunto con accordi congiunti. Una tesi discutibile, soprattutto sulla definizione delle tariffe. Del resto ci sono enormi barriere persino quando i Paesi poveri tentano di procurarsi i presidi medici. «Vogliamo il vaccino dei popoli», prodotto su massima scala e gratuito, hanno domandato i leader di Sudafrica, Pakistan, Ghana e Senegal in un appello. Le autorità del Costarica hanno proposto un ricettario comune - patent pool - per tutte le innovazioni prodotte per contrastare il coronavirus, comprese mascherine, reagenti e ventilatori. Vogliono che diventino “beni comuni globali”, visto che sono i governi a metterci i soldi. E tanti. Quasi dieci miliardi solo da parte degli Usa con l’operazione “Warp Speed” voluta da Donald Trump: un nome tratto dalla saga di Star Trek, dove le astronavi viaggiano anche oltre alla velocità della luce. Ma dove purtroppo non sembra esserci posto per tutti.

Oxfam, la confederazione di ong che lotta contro la povertà globale, evidenzia come i paesi ad alto sviluppo si siano assicurati dai principali candidati alla produzione già il 51 per cento delle dosi di vaccino, nonostante rappresentino solo il 13 per cento della popolazione mondiale. Una scelta miope: oltre a danneggiare le nazioni più arretrate, non scongiura la sopravvivenza di focolai e nuove ondate, obbligando anche gli Stati ricchi a ripetere la vaccinazione dei suoi cittadini. Quanto al costo, è stato lanciato il programma della Covax-Facility, co-guidato da Gavi, Cepi e Oms per acquistare due miliardi di fiale entro la fine del 2021. Secondo la Fondazione Bill Gates per immunizzare i sette miliardi di esseri umani ci vorranno tra 25 e 30 miliardi di dollari.