In un’Italia che dedica al ridurre la disparità di genere lo 0,3 per cento della spesa pubblica, l’idea di destinare al gender gap metà dei fondi del Next Generation Ue sembra una rivoluzione. Ma se non lo si fa, la situazione rischia di peggiorare

Quanti soldi dedica l'Italia a politiche per ridurre la disparità di genere? Tenersi forte: lo zero virgola tre per cento della spesa pubblica. Quando nel suo intervento Carlo Cottarelli, direttore dell'Osservatorio dei conti pubblici italiani della Cattolica, snocciola fuori questo numero traendolo dal cosiddetto "Bilancio di genere" presentato a ottobre dalla sottosegretaria al Mef Maria Cecilia Guerra, si tocca d'improvviso la misura di quanto sia audace, al limite spudorato, quel che si sta tentando di fare. Siamo nel vivo del ciclo degli incontri online organizzati ogni domenica (alle 17 fino a gennaio) a scopo raccolta-proposte da Donne per la salvezza, rete trasversale che come altri gruppi e associazioni italiane ha fatto proprio l'impulso europeo di “Half of it” per destinare metà delle risorse del Next Generation Ue (cosiddetto Recovery fund) a favore della parità.

L'obiettivo di cui si discute è dunque addirittura il 50 per cento dei famosi 209 miliardi di euro, non solo per quel che riguarda la distribuzione del denaro, ma anche per la governance che deciderà come spenderlo, come è stato chiesto in una lettera che oltre venti tra associazioni, gruppi e organizzazioni hanno inviato al premier Giuseppe Conte negli scorsi giorni.

Suona il tutto quasi come una provocazione, visto il punto di partenza. E visti anche i 4,2 miliardi che, nel Recovery plan diffuso lunedì da Palazzo Chigi, sarebbero destinati alla parità di genere: una cifra infinitesima, neanche sufficiente a potenziare la rete degli asili nido, per i quali la Francia spende otto volte, la Svezia tredici volte quel che spendiamo noi. Allo stato infatti i nidi in Italia sono 335 mila, di cui metà pubblici, con un tasso di copertura della fascia da 0 a 3 anni pari al 24,7 per cento del totale. Quel tasso dovrebbe raggiungere il 33 per cento secondo la raccomandazione Ue per il 2010, il 60 per cento secondo il piano Colao: per quegli obiettivi ci vogliono rispettivamente 6 e 8 miliardi, cioè tra una volta e mezzo e il doppio del totale dei soldi ipotizzati nel piano del Recovery per il totale delle politiche di genere.

Peraltro, anche al netto del fatto che, per far funzionare i nidi, i comuni dovrebbero investire poi tra gli 1 e i 4 miliardi ogni anno (anzitutto per il personale), neanche quel potenziamento sarebbe lontanamente sufficiente, in un Paese dove una persona su due (quindi il 50 per cento del totale) ancora pensa che il ruolo della donna sia occuparsi della casa e dei figli, il tasso di mancata partecipazione al lavoro per le donne al sud raggiunge il 41 per cento, i congedi parentali li prendono le donne nel 79 per cento dei casi. Un paese nel quale, spesse volte, si promette il mitologico potenziamento degli asili nido come misura salvifica di tutto, e nello stesso tempo “di genere”, non rivolta alla società nel suo complesso. Come se le conseguenze relative all'assenza di nidi fossero appunto un problema esclusivo delle madri.

Di donne, riforma del sistema di cura in Italia (bambini, anziani, malati), sgravi fiscali e pari rappresentanza continueranno a parlare, ogni domenica alle 17 fino a fino al 3 gennaio, le Donne per la salvezza.

Dopo Cottarelli, Susanna Camusso, Linda Laura Sabbadini, Valeria Fedeli, Emma Bonino, Maria Cecilia Guerra, si continuerà domenica prossima con fra l’altro l’europarlamentare Alexandra Geese che è promotrice dell’Half of it europeo, ma anche deputate come Rossella Muroni, la professoressa Elsa Fornero e altri. La strada è lunga, l’obiettivo è una specie di libro bianco di proposte da consegnare al premier Conte, che intanto arranca tra bracci di ferro e cabine di regia.

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