«Abbiamo sconfitto il covid ma quelle ferite le portiamo ancora addosso»
Donne e uomini, giovani e anziani. Sono passati attraverso la malattia. Sono caduti, si sono rialzati, ma anime e corpi sono ancora prigionieri del virus. Le loro storie, gli incubi e le speranze
I sommersi e i salvati della prima e della seconda ondata. Quelli che hanno subìto la morsa del virus ma sono riusciti a uscirne. Smarriti e stravolti, sfiniti a smaniare il respiro per giorni. Storie tratte dal catalogo degli italiani colpiti dal Covid, un milione, caduti per poi rialzarsi, spesso scoprendo di sentire anima e corpo ancora prigionieri del morbo. Di non trovare un modo di liberarsi da questo terribile 2020. Stefano Lancilli lo ha praticamente passato tutto in ospedale: «Prima sono stato ricoverato per polmonite da legionella; poi mi è stata diagnosticata una lesione vertebrale che mi ha provocato una paralisi agli arti inferiori; alla fine mi sono ritrovato di nuovo negli ultimi giorni di gennaio all’ospedale di Codogno».
Lì dove il 20 febbraio, quando da poco è passata la mezzanotte, viene individuato il primo paziente. E Stefano è tra i primi in assoluto ad ammalarsi: «Nessuno ne sapeva molto. Io avevo già dei problemi di salute e il virus li ha aggravati. Non potevano intubarmi, sono stato bombardato di antibiotici. I medici era disperati: mi avevano dato 48 ore di vita». Sbagliavano. Ora Stefano è a casa: la riabilitazione ha richiesto mesi, cammina a fatica ma per lui è «una ripresa miracolosa». [[ge:rep-locali:espresso:285350055]] «Il mio grosso errore è aver aspettato troppo, ma ripetevano di non intasare gli ospedali». Francesco Pezzali è un terapista della riabilitazione di 61 anni che affronta il morbo a casa. Quando a marzo la sua Brescia viene travolta dai contagi, però trovare bombole d’ossigeno diventa impossibile. Francesco un giorno non respira quasi più e la moglie Cinzia lo porta in auto al pronto soccorso. La situazione precipita: intubato più volte, la sopravvivenza appesa ad un filo con le complicazioni cardiache e una malattia dei nervi che provoca immobilità. «Mi rendevo conto di tutto, ero consapevole della gravità e mi sentivo perso. Come un involucro vuoto che volteggia senza alcun appiglio». Dopo due mesi di rianimazione non camminava più: «Ho perso 20 chili, ma vedere al telefono per la prima volta la mia famiglia è stato un ritorno alla vita». Oggi Francesco vive con un tutore alla gamba sinistra e può muoversi solo con le stampelle. «Prima mi alzavo alle 6,30, ero responsabile di due reparti, non prendevo farmaci. Questo virus può stravolgerti totalmente».
NESSUNO È INVINCIBILE Gabriele Mattia De Angelis se n’era andato a lavorare per la stagione invernale in Trentino e invece si è ritrovato a lottare in terapia intensiva. «Era inizio marzo e dicevano che il virus colpiva solo gli anziani. Io non ho nemmeno trent’anni, mai mi sarei aspettato di finire così». Oggi convive con gli incubi e gli attacchi di panico; con le immagini «delle barelle coperte che mi passavano accanto». E un sogno che si trasforma in realtà: «Sono in una sala operatoria, tutto è calmo e bianco. Non ho nessuna flebo attaccata al braccio, mi alzo, apro la porta e trovo un mare blu. Mi tuffo spensierato e scendo in profondità, ma quando decido di risalire improvvisamente comincio a soffocare. E mi sveglio». Non respira più: ha solo la forza di schiacciare il bottone d’emergenza, poi sviene. Al risveglio è intubato. L’incontro col male avviene dovunque. «In Costa Smeralda la settimana di Ferragosto la situazione era diventata ingestibile soprattutto nei locali. Noi dello staff eravamo obbligati a portare le mascherine, ma i clienti no», racconta la fotografa Aurora Ruffini: «Non si capiva come potessero divertirsi così, senza precauzioni». Nel giro di pochi giorni arrivano la febbre alta, la perdita del gusto e dell’olfatto.
PAURA DI CONTAGIARE Giuseppina De Milato è stata la prima, quando a Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi, il morbo sembrava qualcosa di lontano. Il 29 febbraio torna in Puglia dopo un breve viaggio a Bergamo per il funerale di una persona cara. Pochi giorni e si ritrova lo stigma del pregiudizio. «Molti mi hanno additata come un’untrice, come se la malattia fosse una colpa, come se eventuali contagi scaturiti da un contatto con me potessero essere intenzionali». Un isolamento cattivo, che si somma alla scelta di tenersi lontana per paura di contagiare gli altri. «Solo dopo mesi ho rivisto i miei genitori. Un saluto a distanza. Movimenti minimi e controllati che però sono gesti d’amore», sostiene Sara Zanacchi. Lei educatrice a Bologna si è ammalata lavorando con i più fragili. Si è ritrovata a vivere l’affanno perché «il virus è come qualcuno che ti cammina con forza sopra il cuore e ti disarma». Luigi Torciero è finito in ospedale dopo la settimana bianca con un amico. Uno slalom con la morte, attraverso «febbre, tosse, crisi respiratoria, ambulanza, lastra, tampone, ricovero e una terapia massacrante». Dopo pochi giorni sta meglio e si parla subito di dimissioni, bisogna liberare il posto. «Io sognavo di rivedere mia moglie Tina, ma avevo il terrore di contagiarla». In quegli stessi giorni Luigi perde entrambi i genitori: «Per il Covid o con il Covid, non fa differenza».
Il dramma doppio è proprio quello di farcela, ma senza ritrovare più i propri cari. Il padre di Marco Rovarotto, operaio metalmeccanico 54enne di Borghetto Lodigiano, se ne è andato mentre anche lui combatteva per vivere. «L’ho saputo due settimane dopo, per caso, dal messaggio di condoglianze di un amico. La mia famiglia voleva risparmiarmi altre sofferenze». Marco ha lavorato in fabbrica fino all’ultimo pensando di star bene, poi si è ritrovato con il casco per l’ossigenazione che «spara aria calda e ti stordisce», prigioniero di un silenzio rotto solo dal rumore del respiratore. «Vedi gli altri parlare e non senti, ma sei testimone di un destino che potrebbe diventare tuo: portavano via i miei compagni di stanza morti... Oggi tutto è diverso, sono molto emotivo, piango per cose banali. Quello che ho visto e subìto mi ha stravolto la vita, ma mi sento anche più disponibile verso gli altri. Me l’ha insegnato il dolore».
Maruska Togni piange e si scusa. Vive a Treviso Bresciano, paesino tra le balze delle montagne sul lago di Idro. A fine febbraio tutta la sua famiglia si ammala. «Avevamo la febbre, ma il dottore di base non veniva, così ho chiamato la guardia medica», spiega. Quella sera li hanno portati tutti all’ospedale di Gavardo: «Mio marito viene dimesso senza tampone anche se aveva 39 di febbre, io sono stata ricoverata e ho chiesto di poter mettere mia madre e mio fratello insieme nella stessa camera, perché lei aveva l’Alzheimer e bisogno di assistenza. Pensavo: sta lì con lei, l’assiste intanto che si riprende». Quella è l’ultima volta che li vede. Angela aveva 86 anni e le piaceva cucinare; Sandro 58 e appena poteva camminava in montagna. Mentre erano in ospedale Maruska ha disinfettato l’appartamento dove vivevano. «Mi dicevo: così quando tornano è tutto a posto. E invece nulla lo è più».
“LA VITA! BASTA UN SOFFIO A PORTARSELA VIA” Vittorio Angeli dopo sessant’anni passati a dipingere pareti e soffitti decide di dedicare il suo tempo da pensionato agli anziani. «Tutti i martedì preparavo la tombola e loro non vedevano l’ora. Mia moglie Graziella invece li aiutava a pranzare. Siamo quasi ottantenni ma è il nostro modo di sentirci utili». Poi una sera di metà marzo la febbre sale a 39 e mezzo e arriva la fame d’aria. «In ospedale però ho trovato un amico: il mio vicino di letto, Romano Kessler, ha sette anni meno di me ed è del Passo del Tonale. Mi ha aiutato a superare la vergogna di non essere autonomo, cercava di distrarmi quando le persone morivano». Quest’estate Vittorio si è rivisto con Romano e a piccoli passi si sono messi in cammino tra i sentieri di montagna. Ha scoperto il volto dell’infermiera che gli parlava con gli occhi dietro a uno scafandro ed è scoppiato a piangere. Dentro la casa di riposo alcuni suoi amici non ci sono più. «Lucia che non aveva nessuno e lavorava all’uncinetto, Cornelio che aveva fatto la guerra e raccontava la fame». «Tra fine febbraio e i primi di marzo era un delirio. Non c’erano le mascherine e non si sapeva cosa fare per arginare l’ondata», spiega Marco Lorenz, primario del reparto di nefrologia presso l’ospedale di Zingonia in quella provincia di Bergamo piegata dal peso delle bare accatastate negli obitori con le colonne di camion militari costrette a portarle via. Appena sente i sintomi resta a casa. Non c’è posto per il tampone. Lo farà venti giorni dopo pensando di rientrare a lavorare, «ma sono rimasto positivo fino al 6 di aprile». Marco è tornato a lavorare, consapevole che bisogna cambiare paradigma. «Quello che mi spaventa è che non si faccia tesoro di questa esperienza. Bisogna rivedere la medicina territoriale, costruire un rapporto consapevole tra medico e paziente e investire in una sanità pubblica che non consideri chi è fragile come un guadagno».
“COME ESSERE IN UN LIMBO” Fatto di chiamate e attese, di troppi casi per riuscire ad aiutarti, di abbandono in quell’«ora in cui meno si è sicuri dell’esistenza del mondo». Il limbo per Calogero Vieri, ricercatore universitario a Firenze, inizia ai primi di marzo, quando il governo decide la chiusura di scuole e università ma bar e ristoranti sono ancora aperti. Calogero festeggia 35 anni. «Un pranzo ristretto e pensavo anche prudente. Io, la mia compagna, le bambine e i nonni». Dopo qualche giorno si ritrovano chiusi in isolamento domiciliare, tutti malati. «Nessuno viene a visitarci. Nessun tampone. Mio padre però peggiora. Non respira più. Dopo due settimane siamo riusciti a far arrivare l’ambulanza minacciando una denuncia. Poi 40 giorni in terapia intensiva e noi che non riuscivamo ad avere sue notizie». Salvatore Marinoni che alleva cuccioli alle porte di Roma si è ammalato di Covid poche settimane fa ed è «rimasto sorpreso di averlo superato senza stare troppo male». Lui ha alle spalle due tumori e la necessità di continui controlli. «Molti esami li ho dovuti fare privatamente. La paura oggi è nell’affrontare tutto il resto».
IL LUNGO COVID «I segni li porto addosso: in queste mani che non mi funzionano più bene, una in particolare è completamente immobilizzata; nelle piaghe sul viso e nelle cicatrici lungo il corpo». Luigi Linati ha 47 anni e quando viene decretata la prima zona rossa nel lodigiano è al lavoro in una salumeria di Casalpusterlengo. «Eravamo al confine e ho servito senza sosta con generi di prima necessità gli abitanti, l’esercito, i giornalisti. Il New York Times mi ha fotografato. Ero sano», ricorda con la voce rotta dal pianto. Poi tutto precipita. Un mese e mezzo in terapia intensiva, un calvario: mi hanno operato ai polmoni, ho fatto la dialisi. E ora sono così», dice quasi provasse vergogna. Perché l’esistenza di Luigi non è più la stessa. «Una settimana fa mi hanno licenziato, quel lavoro non lo posso più fare. Devo essere assistito per tutto. Mangiare, vestirmi, andare in bagno. Mi hanno riconosciuto l’invalidità civile». Un’esperienza devastante, ma Luigi non smette di ringraziare «la compagna Silvia, il suo amico Antonio, il dottor Castellazzi e gli infermieri, il fisioterapista. Sono i miei angeli».
«Ogni dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro. E non basta un’eternità a cancellarlo», scriveva Dino Buzzati. Una voragine di disperazione che molti si sono trovati a condividere nel gruppo Facebook “Noi che il covid lo abbiamo sconfitto”, come reduci di una guerra che sanno di potere essere capiti solo da chi ci è passato. E che hanno le stesse ferite, nel corpo e nell’anima. Qualcuno però ha fatto tesoro della lezione.
Nicola Segatta si è ammalato dopo l’ultimo concerto nel ghiacciaio Presena, in Trentino. Sua moglie Silvia lo aspettava a casa, incinta all’ottavo mese. «Fortunatamente ho avuto solo la febbre alta». Ma Silvia ha affrontato una paura profonda: «Pensavo di ritrovarmi con un bambino senza papà». Martino è nato ad aprile in piena pandemia ed è andato tutto bene: «Eravamo tutti dei guariti, anche l’ostetrica: tutti ex positivi». Nicola ha fatto solo un concerto a luglio, non viaggia più come prima e l’opera lirica che ha scritto non potrà andare in scena, ma è felice: «Ho cambiato ritmo, sono ritornato a costruire violoncelli e mi godo i primi mesi di mio figlio».