A un secolo dalla fondazione e a trenta dal suo scioglimento, l'ultimo segretario del partito ricostruisce una vicenda che viene da lontano. E che ha segnato una parte essenziale della storia d'Italia del Novecento

Achille Occhetto
«Non si è trattato del giorno del coraggio. Né del mero cambiamento del nome. La svolta è un capitolo integrante della storia del Pci, non una cosa a parte». Partiamo da Achille Occhetto, 84 anni, detto Akel, pizzetto risorgimentale sale e pepe e sciarpa sbarazzina al collo, per raccontare la favolosa e drammatica storia del Pci e dei comunisti italiani a cent’anni dalla fondazione del Pci a Livorno il 21 gennaio 1921, a trenta suo scioglimento il 3 febbraio 1991 a Rimini. Partiamo dall’ultimo segretario generale del Pci, il più giovane della generazione dei dirigenti togliattiani, il più vecchio dei post-togliattiani.

Chi altri avrebbe potuto sciogliere il glorioso partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer? L’architrave della resistenza e della Repubblica, spiaggiato come una vecchia balena morente, stretto tra l’immobilismo della segreteria di Alessandro Natta, un comunista colto e gentile ma conservatore; la crisi della Prima Repubblica; i massacri di piazza Tienanmen dove il potere comunista cinese, mostrandosi il volto di un nuovo dispotismo asiatico, schiacciava la rivolta degli studenti; il crollo del Muro di Berlino.
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Chi altri, se non un leader irregolare, coraggioso, temerario, visionario? Ovvero, secondo i suoi davvero numerosi critici e avversari, isterico, individualista, confuso. Uno che rintraccia le radici da scoprire «nelle pieghe delle elaborazioni critiche di comunisti e intellettuali eterodossi, perseguitati dalla cultura comunista ufficiale», affermazione che per i tardi epigoni del rinnovamento nella continuità equivale a un’ammissione di eresia scandalosa. E infatti mai davvero accettata.

A Occhetto però non piace essere rappresentato solo così. Ricordate le lacrime al congresso di scioglimento dopo l’abbraccio con il suo vecchio maestro Pietro Ingrao che l’aveva duramente attaccato? «Non piangevo di tristezza: dopo un periodo durissimo di scontri con chi si opponeva allo scioglimento del partito in quell’abbraccio mi sembrò di vedere la via dell’unità. Mi ero illuso, non fu così. Tornò, diretta eredità del 1921, il male oscuro della sinistra: l’idea cioè che il compagno più vicino ma diverso sia più pericoloso della reazione stessa. Quella dannazione di cui parla Ezio Mauro nel suo libro sulla scissione (“La dannazione”, Feltrinelli, ndr )».
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L’ultimo segretario del Pci, che ha appena pubblicato per Marsilio un libro che è anche una specie di mappa per il tempo presente (“Una forma di Futuro”), parla in esclusiva con l’Espresso dei cent’anni del comunismo italiano, raccontandone con la sua prosa brillante e immaginifica i drammi e le gioie, le vittorie e le sconfitte, la gloria e l’infamia, filtrati dai suoi innumerevoli ricordi personali e rivendica di aver salvato l’onore dei comunisti italiani e di averne interpretato la storia migliore.
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Cominciamo dall’inizio. Torniamo a cento anni fa, a Livorno: «La debolezza più evidente di quel congresso è stata che, invece di discutere del dramma che si stava abbattendo sull’Italia, ha posto al centro del dibattito le modalità di una pretesa rivoluzione mondiale che, secondo l’emissario dell’Internazionale, il vero relatore del congresso, batteva alle porte», dice Occhetto: «La cosa che fa più riflettere è che una frattura così clamorosa si sia consumata mentre erano già in atto le violenze squadriste. Proprio alla vigilia della marcia su Roma. I socialisti si riuniscono a congresso e non c’è traccia di discussione sul fascismo nascente e sulle misure unitarie atte a fronteggiarle. Non solo. L’unico accenno al fascismo è la nefasta affermazione di Bordiga secondo cui riformismo e fascismo si equivalevano e dovevano essere combattuti alla stessa stregua. La discussione fu prevalentemente dominata dal diktat di Lenin che imponeva la cacciata dei riformisti e dal vergognoso anatema contro gli stessi socialisti unitari tacciati di tradimento. La nefasta definizione di socialfascismo era già in nuce. Nello stesso tempo occorre rendersi conto che oggi non celebriamo il centenario dello stesso partito nato a Livorno. Già poco dopo la fondazione del Partito, Gramsci si rese infatti conto dell’insuccesso della scissione tra il proletariato. “Fummo sconfitti - scriverà - perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto. Fummo, bisogna dirlo, travolti dagli avvenimenti; fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana”. Questa è una pietra miliare del giudizio sulla scissione di Livorno».
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Occhetto però non si aggrappa a questo passo assai noto per assolvere la storia di cui è stato parte rilevante e autoassolversi: «La continuità è stata l’appartenenza allo stesso campo, sia pure sempre più criticamente: non comprendemmo che il sacrosanto richiamo alla rivoluzione di Ottobre come grande evento nella storia della liberazione umana non avrebbe dovuto avere la conseguenza di accettarne tutti gli atti successivi. A partire, prima dai leninisti 21 punti e poi dallo stalinismo. Siamo stati diversi, ma non innocenti».

Non lo furono certo nel 1956, mentre i carri armati sovietici reprimevano nel sangue la rivolta operaia in Ungheria. In quell’occasione Pietro Ingrao, che pure da direttore dell’Unità esprimeva la linea ufficiale di appoggio alla repressione, andò da Togliatti per confidargli un tormento che non lo faceva dormire la notte, il leader gli rispose con una frase agghiacciante: «Io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più».

È quella, secondo Occhetto, la vera occasione persa per la rottura del legame di ferro con l’Urss e la riunificazione con il Psi: «Ero segretario del circolo comunista universitario milanese Antonio Banfi, e da quella posizione compilai il primo documento politico come giovane dirigente comunista. Si trattava di un attacco contro l’intervento sovietico, che venne pubblicato sul numero zero di Nuova Generazione con il titolo “Il furore alberga nel cuore dei giovani comunisti”. Allora la posizione del Pci fu purtroppo sbagliata, anche sotto il profilo della prospettiva storica. Alcuni, nel partito, mi avrebbero poi censurato per non avere assunto posizioni di apertura verso il Psi al tempo di Craxi, senza rendersi conto che il Pci nel 1956 aveva rotto addirittura con il partito di Nenni, che rappresentava l’ala sinistra del movimento socialista e con il quale, per le assonanze di fondo che caratterizzavano le due realtà politiche, era possibile la riunione in un unico partito della sinistra italiana. Fu in quel momento, e non dopo, che si aprì un solco profondo tra comunisti e socialisti».

Per molti anni, dunque, il Pci continuò a restare in un movimento di cui non si sentiva più parte senza trovare mai il coraggio della rottura definitiva, nella convinzione che il popolo comunista non avrebbe sopportato lo strappo. Enrico Berlinguer lo tenne insieme con il suo straordinario carisma, ma non lo condusse oltre il guado. Restò sempre al di qua della rottura totale e definitiva con quel mondo dal quale pure aveva preso radicalmente le distanze, anche se ormai consapevole dell’abisso che li separava, come dice Occhetto raccontando un suo incontro con Berlinguer a metà degli anni Settanta in Sicilia dove “Akel” era stato mandato a “espiare” l’eresia sessantottina: «“Lenin cambiò il nome al Partito socialdemocratico russo per molto meno. Le differenze di allora tra il pensiero di Lenin e quello di Kautsky erano molto meno grandi di quanto oggi ci divide dal Partito comunista dell’Unione Sovietica”, mi disse. Fantasticammo per un po’ sulle prospettive future e alla fine mi chiese: “Che nome gli daresti?”. Ci pensai un po’, poi timidamente azzardai: “Partito comunista democratico”. Lui sorrise con aria di sufficienza e mi rispose: “Da un lato è troppo poco, e dall’altro si finirebbe per far credere che noi oggi non siamo democratici”».

Tuttavia quella scelta Berlinguer non la fece mai: «Anche nei momenti più alti e nobili delle scelte politiche si faceva sentire, per quanto fossimo adusi a raffinatezze concettuali, una debolezza culturale di fondo derivante dalla scelta di campo», osserva Occhetto.

Nel novembre del 1989 la storia però ricomincia a correre. Tocca a lui annunciare ai partigiani della Bolognina che occorre cambiare tutto. E tocca a lui, considerato un eretico dalla destra amendiolana e un traditore dagli ingraiani, fare quello che nessun leader ha mai avuto il coraggio di fare: «La svolta è stata decisa dal Pci in ben due congressi e con una maggioranza enorme di voti. Fa parte della storia del comunismo italiano perché non è stata un’abiura, né una negazione dei meriti storici. Nasce dalla consapevolezza del mutamento di un’epoca, dal fatto che stavano cambiando tutti i parametri del Novecento e che, per un comunismo nazionale, con il crollo del comunismo internazionale stavano venendo meno l’essenza stessa e la radice vitale. Tuttavia mai, prima della svolta, si è arrivati a considerare che i Paesi del socialismo reale non erano più Paesi socialisti e che l’idea stessa di comunismo era stata da tempo offuscata. Fu una cesura netta col tormentato cammino del rinnovamento nella continuità. Rappresenta un salto di qualità rispetto ad alcuni principi fondamentali che avevano contrassegnato la storia del Pci».

Non è mai stato convinto, Occhetto, della versione moderna del rinnovamento nella continuità, il quale sostiene che il Pci era già finito con la morte di Enrico Berlinguer nel 1984, avendo già egli risolto nella prassi ogni legame con il comunismo dell’Est: «Ricordo che dopo aver visto il film di Walter Veltroni su Berlinguer, Claudio Petruccioli, uno dei miei più stretti collaboratori ai tempi della svolta disse: “Se ce lo dicevano prima che il Pci era già morto magari ci saremmo risparmiati tutta questa fatica”». Effettivamente la fatica fu tanta: due anni e due congressi, una discussione appassionata e drammatica che coinvolse milioni di persone, ben rappresentata dal film “La Cosa” di Nanni Moretti. Altro che Rousseau e i finti congressi di oggi, senza corpo né anima, dissanguati dall’assenza di un popolo in carne e ossa.

Occhetto non vuole aprire in occasione del centenario una disputa sull’eredità del Pci: «Non mi piace parlare di eredità. Piuttosto di lezioni di cui tener conto come la capacità di quel partito di entrare in tutte le pieghe della società. Il secondo grande insegnamento è stato aver dato una svolta rispetto alle tendenze che si manifestano, e non da oggi, nella storia d’Italia. La politica come forma di educazione delle masse e non come modo per accarezzarle a seconda del verso del loro pelo, stuzzicando innate avversioni. Palmiro Togliatti ha avuto il grande merito di combattere il sovversivismo endemico, quello della famosa plebe che si rivolta, e di individuare invece quegli obiettivi che sono di opposizione ma al tempo stesso anche maggioritari, perché tendono a risolvere le grandi questioni nazionali del Paese. La sua lezione è stata quella che anche dall’opposizione si può governare. Questo lo dico a chi mi obietta che non c’è altra via se non quella di rimanere permanentemente nell’area della governabilità. Io affermo invece che il Paese lo si può governare anche dall’opposizione. Perché è meglio perdere con le proprie idee, che vincere con le idee degli altri».

Saprà ascoltare le sue parole una sinistra che apre l’ennesimo cantiere per creare le condizioni di un’alleanza strategica con il “populismo gentile” del M5S, immaginandosi come una sorta di versione 4.0 del togliattismo; avrà orecchie per ascoltare un ceto politico definito così da Mario Tronti in una recente intervista al Riformista: «Dà l’impressione che fuori dai Palazzi si trovi come un bimbo sperduto tra la folla. Non sa più che fare, non sa più dove andare. Ora io, come contestato teorico schmittiano della decisione, sono l’ultimo a deprezzare il ponte di comando. Il problema non è il governo, ma il governo a ogni costo. Con qualunque minestra che passa il convento?». Ovviamente a quel cantiere, promosso da Massimo D’Alema, che Achille ha sempre considerato il suo più tenace avversario interno, Occhetto non era stato invitato. (1-continua)