Ricordo di mia madre, che affrontò prima le SS e poi la misoginia delle leggi italiane

Mamma1-jpg
Mamma1-jpg

Partigiana, europeista, giornalista. Fra le poche donne del Partito d’Azione. E combattente per i diritti civili, per il diritto di divorziare e di avere figli fuori dal matrimonio. La storia di Gianna Radiconcini, che ci ha lasciati in questo 2020

Mamma1-jpg
Se il vecchio diritto di famiglia non fosse stato riformato nel 1975, superando incrostazioni arcaiche, non avrei potuto scrivere questo articolo o perlomeno firmarlo con il mio vero cognome. A dimostrazione di quanto la Storia entri nella vita delle persone, o come cantava Francesco De Gregori, «la Storia entra dentro le stanze, le brucia, la Storia dà torto e dà ragione».

Sono nato nel 1970 da due genitori non sposati, in un’Italia post-sessantottina che faceva ancora i conti con leggi d’epoca fascista, rimaste in vigore nell’Italia repubblicana. Mia madre, Gianna Radiconini, ex staffetta partigiana e prima donna corrispondente della Rai a Bruxelles e Strasburgo, era stata abbandonata dal suo primo marito che l’aveva lasciata con due figli piccoli, per rifarsi una vita con un’altra donna. Gianna aveva poi incontrato un nuovo amore (mio padre), ma il suo ex marito le aveva intimato di non mostrare la sua nuova relazione in pubblico, perché l’avrebbe fatta arrestare per adulterio.

Nell’Italia del secondo dopoguerra, la legge (retaggio del codice civile del 1942) tutelava, infatti, un solo modello di famiglia, quella coniugale e riproduttiva, che legittimava per gli uomini una certa libertà sessuale fuori dal matrimonio e imponeva alle donne la fedeltà.

Ma cosa accadeva se una donna aveva dei figli nati fuori dal matrimonio? Come veniva trattata dalla società e quali diritti avevano i figli nati dalle relazioni extraconiugali? Con una storica sentenza emessa nel 1968, la Corte Costituzionale eliminava il reato di adulterio dal nostro codice penale, dichiarando illegittimo l’articolo 599. Eppure, nel senso comune degli italiani, le donne emancipate sarebbero state a lungo considerate fonte di scandalo.

Nell’Italia degli anni ’70, le donne vivevano ancora discriminazioni indicibili: se si sposavano o facevano figli venivano licenziate, perché nei contratti di lavoro vigeva ancora la cosiddetta “clausola di nubilato” (altra norma del periodo fascista). Persino uccidere una donna non era così grave, se in ballo c’era l’onore dell’uomo (il delitto d’onore verrà abrogato solo nel 1981). Le donne non potevano poi decidere della loro maternità, non potevano diventare giudizi o poliziotte o accedere ad alti livelli di carriera perché considerate troppo fragili.

Una donna separata da tempo, come nel caso di mia madre Gianna, sarebbe quindi finita in carcere come adultera se avesse partorito un figlio concepito con un altro uomo e non avrebbe potuto riconoscerlo, con il conseguente affidamento al brefotrofio.

«Mio figlio Andrea, il terzogenito, era così “non regolamentare” che più non si poteva. Ma io volevo quel bambino, contro tutti e tutto, e la mia anima si rivoltava all’idea che la sua esistenza fosse legata solo a mere convenienze sociali e non a un mio difetto fisico o a un rifiuto psicologico. Collaborava all’ingiustizia un’azienda, la Rai, che soleva dire alle collaboratrici incinte: “Molti auguri per il bambino, signora. Si riposi. Per ora purtroppo non c’è lavoro per lei nel suo settore. Ci faremo sentire noi in futuro”».

Ha scritto così mia madre Gianna Radiconcini, giornalista e puerpera precaria, futura madre clandestina di un figlio “illegittimo”. Per sfuggire alla galera e al brefotrofio, scelse di partorire a Milano dove aveva trovato la solidarietà di una ginecologa, Rosanna Viola, che mi fece nascere senza cognome.

Fu proprio Viola a far registrare il nuovo arrivato «all’Ufficio dello Stato civile e suggerì all’ufficiale di imporre al bambino il cognome Maggiore, come suo padre. Il funzionario obiettò che un nome che finiva con la “e” non era milanese ma meridionale. Decise di chiamarlo Maggiori, con la “i”». Così, solo grazie all’approvazione della legge Reale sulla riforma del diritto di famiglia mia madre ha potuto registrarmi con il mio vero cognome che ora finisce con la “e”, con buona pace del pedigree padano.

Mia madre, del resto, era abituata a lottare. Fin da quando, ancora ragazzina, aveva aderito con convinzione alle formazioni della Resistenza, che operavano nella Roma occupata dai nazisti. La sua biografia antifascista era iniziata presto, con un cognome ingombrante: Starace. E una doppia declinazione littoria: Achille, segretario del partito fascista, e sua cugina Luisa direttrice della scuola gestita dalle suore. «A nove anni ero antifascista. Tra i possibili motivi di una dichiarazione di fede così netta c’è un’immagine. È la sovrapposizione, visiva, dei fascisti in orbace e fez con le monache della mia scuola, l’Istituto Nazareth di Roma, nella loro cuffia arricciata. A saldare definitivamente le due immagini c’è un nome: Starace».

Così ha raccontato nel suo libro di memorie, ricordando il suo antifascismo quasi esistenziale, prima ancora che politico, nato dal rifiuto di indossare le divise che la sua insegnante, Luisa Starace, metteva a punto per le alunne della scuola. «Mi rifiutai di seguirla nei suoi deliri estetici anche per l’oggettiva difficoltà di acquistare indumenti durante la guerra. Bisognava usare i “punti” della tessera che erano pochi. Non avevo nessuna intenzione di utilizzarli per comprare divise. Per questo motivo ho passato un intero anno in punizione: in silenzio, durante le ricreazioni, a causa di un paio di scarpe. Rosse. Non ammesse».

Poi la presa di coscienza di questo suo antifascismo “infantile”, fondato sul disgusto estetico per la rozzezza di regime, aveva lasciato il posto a una maggiore consapevolezza politica. Ed è con l’irrompere della guerra nella vita di tutti i giorni, che mia madre decise fosse giunto il momento di dare una risposta definitiva, risoluta e forte alla violenza del fascismo e dell’occupante tedesco. La sua infanzia terminò con l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando di ritrovò di colpo proiettata in un’adolescenza zeppa di compiti e responsabilità imprevisti.

Una compagna di scuola, Giulia Rocco, le chiese se voleva “lavorare” per la Resistenza. E così, dopo aver fatto la “porta notizie” per i compagni, nel gennaio del 1944 le fu chiesto di arruolare un po’ di amiche fidate per partecipare ad una manifestazione davanti alla caserma di Viale Giulio Cesare. I nazifascisti avevano fermato e prelevato tutti gli uomini renitenti alla leva e li avevano portati in caserma.

«Il marciapiede di fronte alla “prigione” era gremito di donne che gridavano il nome del loro caro nel tentativo di avere notizie. Una donna in avanzato stato di gravidanza strillava come le altre il nome degli uomini di cui voleva avere notizie. All’improvviso sbucò dalla sinistra del viale una motocicletta montata da due ragazzi, due Ss. Quello che non guidava, un biondino neanche ventenne, ci scaricò addosso tutto il caricatore del mitra. Le grida cessarono di colpo, mi voltai verso sinistra e vidi non lontano da me, in una pozza di sangue, quella donna che avevo notato prima perché incinta: era Teresa Gullace».

Qualche tempo dopo, il barbaro assassino di questa madre, che a casa aveva già sei figli, avrebbe ispirato la drammatica sequenza di “Roma città aperta”, il film di Roberto Rossellini in cui Anna Magnani viene freddata da una sventagliata di pallottole nazifasciste, rimanendo senza vita sul selciato.

L’impegno che mia madre aveva messo nella Resistenza, contro l’autoritarismo di regime, non poteva non continuare nel dopoguerra: la sua militanza nel Partito d’Azione e poi nel Partito Repubblicano, fu segnata dalla stessa smania di cambiamento; da quella stessa aspirazione alla libertà che aveva segnato gli anni della clandestinità nella guerra partigiana.

La militanza nel Partito d’Azione, in particolare, fu per mia madre una vera e propria fonte battesimale del suo ingresso nella democrazia riconquistata. Giovanissima, mia madre aveva fermamente creduto nella possibilità di saldare l’orizzonte delle libertà e dei diritti civili a una dimensione di giustizia sociale, come aveva annunciato dai leader del partito. Gianna era stata fra le poche donne a partecipare al congresso del Partito d’azione, a Roma il 4 febbraio 1946, e a incontrare personaggi come Ugo La Malfa, Oronzo Reale, Altiero Spinelli e Anna Lorenzetto.

Ma quel congresso aveva segnato la fine prematura di quel giovane partito: la frattura insanabile fra l’anima liberale e quella socialista. «Parri e La Malfa uscirono dal partito e fondarono il Movimento della democrazia repubblicana, seguiti da 146 scissionisti. Tra questi Spinelli, incarnazione vivente del sogno europeo. Iniziò a inseguire la stella polare di un’Europa federale fin dalla prigionia fascista (dove aveva trascorso 10 lunghi anni) prima da militante comunista poi da ideatore del “Manifesto di Ventotene”, che prese il nome dall’isola in cui fu messo al confino dal regime». Lì con Ernesto Rossi e la collaborazione di Eugenio Colorni prese corpo l’utopia di un’Europa politica, che oggi può apparire come una sorta di eresia in tempi di sovranismi e populismi più o meno vincenti.

Chiamata a ricordare il suo mentore, a pochi anni dalla morte, alla Festa dell’Unità di Modena, mia madre volle rievocare la crisi politica che Spinelli aveva avuto in carcere «per la sua fede comunista che cominciava a vacillare». Ma appena finito di parlare, venne bacchettata severamente da Giancarlo Pajetta: «Radiconcini, non puoi permetterti di dire che Altiero ha avuto quella crisi: un comunista non ne ha mai!»

Che mia madre non avesse timori reverenziali per i potenti lo si capisce anche da un altro episodio. Tra il 1984 e il 1985 alcuni pretori spensero le reti Fininvest, che attraverso un ingegnoso sistema di interconnessione riuscivano a trasmettere contemporaneamente su tutto il territorio nazionale, aggirando così il divieto per la mancanza di concessioni.

A riaccendere le televisioni del biscione, ci aveva pensato con un decreto Bettino Craxi, allora Presidente del Consiglio e amico di Berlusconi. Al termine di una riunione europea, i giornalisti italiani aspettavano una dichiarazione del capo del governo su questo caso mediatico e incalzato dalla domanda di mia madre, Bettino Craxi aveva risposto in maniera insolente: «Tu chi sei?». Senza battere ciglio, mia madre Gianna aveva replicato: «Io sono Gianna Radiconcini… e tu chi sei?».

Mia madre se n’è andata in questo terribile 2020 con il desiderio che le sue ceneri venissero sparse nel mare di Ventotene, dove è sbocciato il progetto per gli Stati Uniti d’Europa. È lì che l’accompagneremo, perché è in quel santuario laico dell’europeismo che il suo cuore continua a battere. E forse lo farà all’unisono con quello del suo padre spirituale, Altiero Spinelli.

L'edicola

Voglia di nucleare - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso

Il settimanale, da venerdì 28 marzo, è disponibile in edicola e in app