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Attualità
dicembre, 2020

Recovery, ultima chance dall’Europa

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Se il piano italiano fallisce, è finita l’Europa, dicono  a Bruxelles. Dove si discute del debito: che non sarà cancellato

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Come scrivevamo ieri…», aprì Indro Montanelli la sua prima rubrica sul Corriere della Sera, che aveva interrotto nel 1940, dopo la fine della guerra. Similmente, abbiamo lasciato dieci mesi fa l’Europa alle prese con i suoi infiniti problemi, discutere sui decimali, litigare sui migranti, fronteggiare le spinte centrifughe dei sovranisti, quando tutto è stato travolto da questa specie di eruzione del Vesuvio del coronavirus. In affanno, Bruxelles - mentre le strutture sanitarie di tutto il continente tentavano di arginare il male - ha sospeso il patto di stabilità, ha rimosso i vincoli sull’intervento pubblico, ha varato l’ambizioso Recovery Fund. Break or die, dicevano gli equipaggi dei rompighiaccio artici. «O si riesce a realizzare un vero disegno comune di ricostruzione e di rilancio post-Covid o è meglio abbandonare qualsiasi velleità federalistica», dice l’economista anglo-tedesco Wolfgang Munchau. «Perfino Angela Merkel, il politico più potente d’Europa, deve continuamente scendere a compromessi e ogni volta rendersi conto che il coordinamento di un’unione monetaria fatta di tanti Stati sovrani ha i suoi limiti. I governi rispondono ai loro elettori, non all’Ue».

La posta in gioco è così alta che il tentativo vale la pena di farlo. La scommessa riguarda in primis l’Italia. «La quota di aiuti del Recovery Fund assegnata al nostro Paese (209 miliardi su 750, ndr) è talmente squilibrata a favore dell’Italia che, visto che non è più vero che sia stata più colpita di altri, contiene un messaggio inconfondibile: voi siete il problema dell’Europa, vi diamo l’ultima chance per riprendere con decisione il cammino della crescita», spiega Stefano Micossi, economista e direttore dell’Assonime. «Se l’Italia fallisce, è finita l’Europa. Proprio per questo bisogna impostare al più presto una catena decisionale più snella e coerente, senza tecnostrutture inutili ma concentrando nel governo le capacità decisionali». Più tranchant è Fabrizio Pezzani, economista della Bocconi: «Un governo tenuto insieme per miracolo anziché creare ricchezza la brucia con provvedimenti estenuanti e incomprensibili costruiti sul nulla giuridico da una burocrazia più pericolosa del Covid».

Riflette Marcello Messori della Luiss school of european political economy: «Si devono integrare le iniziative nazionali e i progetti finanziati dall’Europa per valorizzare il Recovery Fund». E aggiunge: «Immaginiamo uno scenario positivo, in cui si è riusciti a trasformare questo momento in una pietra miliare nel processo di integrazione. Però sarà il mondo ad esser cambiato. L’Europa dovrà allora ottimizzare il suo motore intrinseco di crescita, potenziando il mercato interno e l’unione bancaria, perché la globalizzazione si sarà ridimensionata e il bipolarismo competitivo Usa-Cina, malgrado la dichiarata volontà di Biden di riprendere il dialogo transatlantico, rischierà di rendere più difficile la posizione europea nelle grandi correnti commerciali».

Anche l’Europa sarà cambiata quando la cenere si poserà, e sarà piena di debiti come non mai. Partendo da questa realtà, ha gettato il sasso nello stagno il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, seguito a ruota dal sottosegretario alla presidenza Riccardo Fraccaro, parlando dell’idea di cancellare interessi o l’intero debito acceso per il Recovery. Gli economisti si sono affrettati a chiarire che è impossibile perché vietato dai trattati, sarebbe addirittura controproducente per l’Italia, è inopportuno che dal nostro Paese venga un’idea del genere. Però il problema esiste. Il Financial Times ha lanciato l’idea di concentrare i debiti del Recovery nel Mes, appena riformato per renderlo più funzionale all’integrazione politica, che potrebbe trasformarsi nel ministero del Tesoro della Ue. «Eviterei fughe in avanti», commenta l’economista Rainer Masera, già ministro del Bilancio nonché membro del Gruppo de Larosière che nel 2009 impostò la revisione delle regole finanziarie in Europa. «Non tiriamo troppo la corda con i Paesi nordici: non dimentichiamo che solo nel maggio 2020, cinque anni dopo l’inizio degli interventi, la Corte Costituzionale tedesca ha avallato gli acquisti di bond della Bce, chiedendo di limitare gli interventi d’emergenza per la pandemia. Non bisogna esporsi al rischio di trovarsi alla ripresa post-pandemia con un contenzioso del genere aperto».

Sta di fatto che il debito europeo sulla spinta degli interventi post-Covid sta esplodendo. E andrà sempre peggio perché i finanziamenti del Recovery devono ancora cominciare. La media dell’area euro supererà a fine anno il 100 per cento del Pil, la Germania in un colpo solo sale dal 65 all’85 per cento, la Francia dal 98 al 125 per cento, la Spagna dal 95 al 115 per cento, il Portogallo schizza al 131 per cento. E l’Italia supererà al ribasso il 158,8 per cento del Pil toccato nel 1919, quando c’erano da riparare i danni della Grande Guerra, toccando il 159,6 per cento secondo la Commissione. E quel che è peggio, negli anni a venire si ridurrà in misura minima, al 159,5 per cento nel 2021 e 159,1 per cento nel 2022. «Però paradossalmente per i mercati il debito italiano è più sostenibile ora che l’anno scorso perché è sostenuto dai massicci interventi dell’Unione europea e della Bce dovuti alla pandemia», rileva l’economista Giampaolo Galli. «La Bce avrà acquistato a fine 2020 oltre 170 miliardi di titoli italiani, pari all’intero deficit per quest’anno. Di sicuro, quando si tratterà di rimettere mano al Fiscal Compact che fissava gli antichi limiti di bilancio, non si potrà non tener conto dei radicali cambiamenti nello scenario». L’European Fiscal Board, un organismo della commissione, ha iniziato a redigere delle simulazioni per adattare alla realtà le nuove norme europee, «destinate ad entrare in vigore nel 2022 o ‘23 quando la pandemia e la recessione saranno passate», precisa Massimo Bordignon, l’economista della Cattolica che è il membro italiano del Board.

«Obbligare l’Italia a rientrare nel 60 per cento di debito, come dicevano le vecchie norme, non ha più senso. Senza sfasciare tutto perché ci andrebbe di mezzo l’Europa, noi ipotizziamo un livello dell’80 per cento da raggiungere in un congruo numero di anni: non è implausibile e non richiede forme particolari di austerity, basterà ripristinare l’avanzo primario (il bilancio pubblico al netto degli interessi, ndr) evitando spese improduttive e sbagliate. Dando ai mercati, per non far salire lo spread, l’impressione che si considera il debito un problema serio». Per fortuna la Bce continua a promettere (come l’omologa americana Fed) che manterrà bassi i tassi per parecchi anni, dato che di inflazione non c’è traccia, e che continuerà a lungo anche i suoi acquisti di titoli di Stato (oggi detiene il 30% dell’intero debito pubblico italiano).

C’è dell’altro: «È probabile che la commissione deciderà di rinnovare i Recovery bond quando andranno a scadenza, nel lontano 2058 (i titoli saranno trentennali a decorrere dal 2028, ndr) emettendone un uguale ammontare», avverte Brunello Rosa della London School of Economics. «A questo punto si riduce la differenza fra i Recovery bond e i “titoli irridemibili” usati in America dopo la guerra civile e in Gran Bretagna da Churchill, i cosiddetti consols». Insomma, come dice Daniel Gros, direttore del Center for economic policy studies di Bruxelles, «se l’Italia non si dimostra degna di tanta attenzione neanche stavolta, impostando finalmente qualcuna delle riforme che da anni le vengono chieste, dalla burocrazia alla giustizia, davvero non avrà scuse. Bisogna re-innescare il circuito della crescita e della produttività». A questo fine, una delle raccomandazioni più forti per il post-Covid è riattivare gli investimenti.

Invece, accusa Mario Baldassarri, presidente del Centro studi sull’economia reale, nei provvedimenti in discussione non ce n’è traccia: «Per trovare spazio per gli investimenti, fra cig, sussidi e ristori, occorre una manovra da 100 miliardi, altro che i 38 previsti dalla legge di Bilancio. Non è irrealistico se solo si ha il coraggio di agire una volta per tutte sui finanziamenti a fondo perduto per iniziative mai realizzate, dall’aeroporto della Basilicata al ponte sullo Stretto, che continuano a drenare centinaia di milioni per fantomatici “studi e ricerche”». Insomma, lo sguardo in prospettiva sull’Europa si incrocia con i mali del suo anello debole, l’Italia. «Non credo che si stiano accumulando ritardi incolmabili nei piani italiani per il Recovery Fund», commenta l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, oggi presidente dello Iai. «Certo occorre evitare passi falsi, e soprattutto dare l’impressione di confusione istituzionale. Ogni progetto va pre-negoziato al millimetro con gli uffici della commissione, e questa si riserva il diritto di monitorare l’esecuzione». Non sono ammessi errori né leggerezze: i “falchi” dell’Europa sono in guardia.

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