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Ad aprile, nel pieno della prima ondata, le banche hanno fatto la fila per finanziare il progetto con un prestito di 265 milioni di euro. In tempi di emergenza pandemica, con il virus che ancora imperversa da un capo all’altro della Penisola, l’immagine del grande cantiere a nord della metropoli lombarda, proprio dove il contagio ha mietuto più vittime, rappresenta al meglio la differenza di passo tra i due poli del welfare nostrano.
Da una parte l’assistenza pubblica, colpita da anni di tagli che ne hanno indebolito la capacità di reazione di fronte all’attacco del Covid. Dall’altra gli imprenditori della salute, cresciuti a gran velocità proprio grazie ai varchi aperti dall’austerity decisa dai governi di Roma e pronti a crescere ancora grazie ai profitti accumulati nel recente passato.
Nella regione governata dalla coppia Attilio Fontana e Giulio Gallera il contrasto tra le due facce della sanità nostrana è particolarmente evidente perché qui prosperano i gruppi privati di gran lunga più ricchi ed efficienti, dotati di strutture di eccellenza internazionale che richiamano migliaia di pazienti dal resto del Paese. C’è il San Donato dei Rotelli con i suoi 18 ospedali. E poi l’Humanitas della famiglia Rocca. Messi insieme, nel 2019 i due campioni nazionali hanno incassato oltre 2,5 miliardi, quasi tutti in Lombardia, con profitti complessivi vicini ai 100 milioni al netto delle tasse. Ben oltre la metà di questi introiti arrivano dalla Regione guidata da Fontana: sono i rimborsi per tutte le attività, dagli interventi chirurgici fino alla gestione degli ambulatori, svolte per conto del servizio sanitario nazionale.
In questi mesi però la tempesta del Covid ha cambiato le carte in tavola. I grandi gruppi, che già lamentavano il taglio dei finanziamenti regionali, ora piangono miseria e bussano alla porta della controparte pubblica per spuntare un aggiornamento al rialzo dei contributi. L’aumento - spiegano - serve a pagare le prestazioni extra fornite da ospedali come il San Raffaele o l’Humanitas per far fronte all’emergenza. Durante la prima ondata, così come in queste ultime settimane con la nuova offensiva del virus, le strutture private hanno accolto migliaia di contagiati con un conseguente forte aggravio dei costi di gestione. Il Covid è diventato una priorità assoluta a cui destinare spazi, risorse e personale.
Nei mesi scorsi, quindi, si è molto ridotta l’attività chirurgica ordinaria: priorità alle urgenze indifferibili, mentre gli altri interventi sono stati in buona parte annullati o rimandati. Il Policlinico San Donato, così come l’ospedale dei Rocca, ha anche inviato medici e infermieri per contribuire alla gestione del reparto di terapia intensiva fatto costruire in gran fretta dalla regione Lombardia negli spazi della vecchia Fiera di Milano. Inoltre, la pandemia ha finito per colpire tutto il business dei cosiddetti solventi, cioè chi paga di tasca propria oppure grazie a una polizza sanitaria.
Non c’è da sorprendersi, allora, se la lobby della sanità è già partita al contrattacco con l’obiettivo di recuperare almeno in parte i ricavi persi per strada per effetto del virus. In altre parole, i grandi gruppi hanno presentato il conto del loro contributo alla gestione dell’emergenza. E ora chiedono che sia la Regione a pagare per le prestazioni delegate ai privati, chiamati sin dai primi di marzo in soccorso del servizio sanitario pubblico per arginare il flusso sempre più allarmante dei malati di Covid. Nell’arco di nove mesi gli ospedali dei Rotelli, in primis San Raffaele e San Donato, hanno curato circa 9 mila pazienti, mentre all’Humanitas i ricoveri, secondo una fonte aziendale, hanno toccato quota 4.400. Anche i posti in terapia intensiva sono stati di molto aumentati, con la creazione di strutture ad hoc.
Difficile negare, quindi, che l’intervento dei privati si sia rivelato decisivo per frenare il contagio. D’altronde, fanno notare gli esperti, in un sistema come quello lombardo, le cose non potevano andare diversamente. La sanità pubblica, a corto di risorse finanziarie per effetto dei tagli imposti da Roma, da anni è costretta a giocare in difesa. Nella regione più ricca Italia, è stata di fatto delegata ai privati una fetta sempre più ampia dell’attività ospedaliera, molto spesso quella più remunerativa. E così, quando la pandemia è esplosa, per evitare il crollo non è rimasto altro da fare che coinvolgere nella lotta al virus l’intero sistema, compresi quei gruppi che negli anni scorsi, grazie alle scelte politiche della Lombardia, hanno accumulato profitti colossali.
Adesso, gli imprenditori della salute battono cassa e chiedono, pure loro, di accedere a una qualche forma di rimborso, proprio come decine di altre categorie già beneficiate delle norme approvate nei mesi scorsi. Per effetto del cosiddetto decreto ristori bis del 10 novembre, il governo ha già aperto un paracadute per gli ospedali che sin dalla primavera scorsa hanno affiancato la sanità a controllo pubblico. La norma riconosce un “contributo una tantum legato all’emergenza” per i costi sostenuti per effetto della sospensione delle attività ordinarie cosiddette “in elezione”, cioè i ricoveri programmati. Il tetto massimo previsto dal decreto arriva al 90 per cento del budget della struttura, ma tocca poi alle singole Regioni stabilire il quantum da destinare a ciascun operatore.
In Lombardia la posta in gioco è molto più alta che altrove. I grandi gruppi ospedalieri premono sulla giunta Fontana per ottenere il massimo possibile, ma non si accontentano dei semplici ristori. I privati chiedono che vengano aggiornate al rialzo anche quelli che in gergo tecnico sono definiti Drg, cioè le tariffe pagate dalla Regione per le prestazioni legate alla cura dei pazienti Covid. La partita vale centinaia di milioni, soldi dei contribuenti. E la questione da dirimere si presenta a dir poco complessa, perché nel bilancio in rosso della guerra alla pandemia diventa ancora più difficile fare il conto del dare e dell’avere. Infatti, se resta un dato di fatto il contributo fornito da gruppi come San Donato e Humanitas, molti osservatori segnalano che nella fase di emergenza sono stati soprattutto gli ospedali pubblici a pagare il prezzo maggiore, chiudendo reparti e servizi ai pazienti ordinari per affrontare l’onda montante dei ricoveri causa virus. Per scoprirlo basta dare un’occhiata alla nota della direzione generale Welfare della regione Lombardia datata 2 novembre. Con questa disposizione l’assessorato guidato da Gallera ha riorganizzato la rete ospedaliera per affrontare la seconda ondata.
Per quanto riguarda l’attività di “alta specializzazione non procrastinabile” (ictus, infarti, traumi, oncologia), i privati in molti casi hanno potuto proseguire con l’attività ordinaria, salvaguardando i relativi incassi. Diverse strutture pubbliche, dal San Gerardo di Monza al Policlinico San Matteo, sono invece state costrette a sospendere queste prestazioni.
La pandemia ha poi creato anche nuovi servizi, dai test diagnostici alle visite in casa propria per i pazienti sospetti Covid. E qui i privati sono stati rapidissimi a monetizzare queste occasioni d’affari. Nei giorni scorsi le cronache hanno raccontato dei tamponi a domicilio offerti in Lombardia da Humanitas e Gruppo San Donato, così come da altri operatori. Un business molto ricco, visto che ogni singola prestazione arriva a costare fino a 125 euro per un semplice esame molecolare. Mentre il San Raffaele propone una visita specialistica nella propria abitazione al prezzo di 450 euro. «Il sistema sanitario regionale offre gratuitamente questi servizi», ha commentato con un certo sprezzo del pericolo l’assessore Gallera. Dimenticando che in novembre migliaia di lombardi sono rimasti in balia del virus senza poter accedere in tempi brevi a una visita domiciliare o un tampone. Ovvero proprio quei «servizi» che avrebbe dovuto garantire la Regione. Cioè Gallera.