Italia minore

Nel silenzio di Anzano, il paese simbolo del comunismo del malessere

di Franco Arminio   7 febbraio 2020

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Domenico Lorusso, 25 anni, ha studiato per diventare geometra ma al momento lavora come fornaio

Emigrazioni, ritorni, nuove fughe. Tante serrande chiuse. Un bar dove si gioca a carte, un ex postino, un ex operaio, un maresciallo preoccupato. Viaggio sui monti Dauni, in un luogo sempre più vuoto, naufrago in mezzo alla Puglia

Domenico Lorusso, 25 anni, ha studiato per diventare geometra ma al momento lavora come fornaio
Sono stato tante volte ad Anzano. È a mezz’ora da casa mia, è un paese ideale per illustrare la situazione che stanno vivendo oggi i paesi. Alcune volte neppure ci sono arrivato ad Anzano, mi sono fermato due chilometri prima, nella frazione di Mastralessio che si incontra sulla strada. Oggi non ho fatto nessuna pausa. La pasticceria è chiusa, nella piccola piazzetta non c’è più la fontana. Chiuso anche il bar. L’unico segno di vita sono alcuni panni stesi.

Arrivo ad Anzano e parcheggio la macchina vicino all’edificio del Comune. Gli edifici comunali sono brutti in quasi tutti i paesi italiani. Spesso sono edifici realizzati negli ultimi cinquant’anni da architetti che cercano di farsi notare con un disegno particolare, ma alla fine fanno notare solo i loro limiti.

La tabella dice “piazza Municipio”, ma non è una piazza. Questo paese sembra sia stato costruito da un gruppo di profughi sfuggiti a un eccidio nella vicina Sant’Agata. Sembra una frazione di campagna che col tempo si è un poco ampliata. Davanti al Municipio c’è la prima insegna, “Zi Carluccio, bar, ristorante, pizzeria”. Pochi passi e compare il bar Anna e dall’altro lato della strada il bar Centrale.

Davanti al bar Anna c’è un tipo con un grosso cappello da cow boy. Gli faccio una foto da lontano, fa cenno di gradire. Mi avvicino, entriamo assieme nel bar. Ci sono due tavoli di giocatori di carte.

Il signore col cappello lo chiamano Albano. Lui mi dice che è il leone del Subappennino. Albano mi dice che vuole farmi sentire una canzone, ma ha bisogno della base. La figlia della barista trova la base e l’esecuzione comincia. È una di quelle riprese che rischiano di essere estreme se le fai vedere. L’accusa che vuoi screditare il paese è subito pronta.
Rosa Marinacci ha perso il marito a 32 anni. Da allora si è sempre vestita di nero

Mi metto a parlare con un ragazzo. Si chiama Antonio Coppola, lavora in Toscana. Nel bar c’è un’altra persona giovane. Si chiama Vito. È nato in Australia, poi è venuto qui e poi è emigrato per otto anni e ora è di nuovo ad Anzano da disoccupato.

Entra nel bar una persona dicendomi che mi vuole il maresciallo. Esco. Il maresciallo mi chiede cosa faccio. Gli dico che sono un giornalista, devo scrivere un articolo per l’Espresso. Mi chiede il documento e lo fotografa. Il motivo del consulto è che hanno telefonato alla stazione di Cerignola dicendo che qui c’era un tipo che fotografava e prendeva appunti. Il maresciallo di Anzano dice che la gente è allarmata, in paese c’è stato qualche furto nelle case. È singolare questo stato di allarme in un posto sperduto. Tutto chiarito. Non è che per visitare un paese, per fotografarlo bisogna passare a chiedere il permesso dalla caserma.

Riprendo il mio posto al bar. I giocatori di carte non sembrano interessati alla mia presenza. Me li faccio illustrare. In un angolo c’è Rocco Rossi, ex postino. Davanti a lui, Ottavio Lavanga, ex muratore, padre del sindaco. Il mio Virgilio da fermo è Mario Melino, ex operaio alla Fiat di Grottaminarda. Ora mi parla di una persona appena entrata. Ha un figlio in Svizzera e una figlia nella zona di Rimini. La Svizzera nel bar è ben rappresentata anche da altri due anziani, Rocco e Donato, pure loro giocatori di carte.

Torno a parlare con Antonio, il ragazzo tornato dalla Toscana. Mi dice che l’anno appena scorso sono emigrati una cinquantina di ragazzi, quasi tutti tra Toscana ed Emilia. Un’altra quarantina di ragazzi stanno tra Londra e la Svizzera. Praticamente sono partiti tutti. Il paese sulla carta ha milleduecento abitanti ma gli effettivi presenti in un giorno d’inverno non sono più di 700. Questa ennesima ondata migratoria è assai diversa dalle altre. Prima si emigrava da un paese vivo.

Ora è come se si andasse via da un paese in agonia ed è come se queste partenze fossero il colpo di grazia. Ovviamente così non deve essere. Anzano è sui monti dauni, la parte montuosa della provincia di Foggia. È una zona interessata alla strategia nazionale delle aree interne a suo tempo concepita da Fabrizio Barca e ora è seguita con attenzione dal ministro Giuseppe Provenzano. È assolutamente necessario cominciare a fare delle cose concrete per questi paesi più sperduti e affranti. Ci sono tutte le condizioni perché questo governo si metta a lavoro per salvare questi paesi naufraghi in mezzo alla terra.

Anzano ha sei bar, c’è la farmacia, la posta, la banca, ci sono le scuole, dalla materna alle medie, c’è una macelleria, un mobilificio, ci sono due pasticcerie, due negozi di generi alimentari, appartenenti allo stesso proprietario, c’è il panificio. La cartolibreria ha chiuso da poco. C’erano tre ristoranti, ne sono rimasti due. Prima di andare via scambio due parole anche col barista, il marito di Anna. Lui fa anche l’agricoltore. Mi dice che quest’anno il grano lo hanno venduto a 27 euro, dieci euro in più dell’anno prima.

Esco dal bar, entro nella pasticceria, scarna ma con cose buone. Mi incammino per altre strade dietro quella principale intorno a cui scorre il paese. Le case sono quasi tutte chiuse. Il silenzio è assoluto, senza compromessi. Ogni tanto c’è qualche casa con la luce accesa. Da fuori si vede un’anziana donna. In una casa ce ne sono due. Torno sulla via principale. Davanti al bar Centrale c’è un signore solitario. Sta piegato da un sacco di tempo sulla ringhiera. Una signora che sta in casa mi vede che la sto fotografando, ma è un’indiscrezione che non la disturba. Continuo a camminare tra le case chiuse.
Vito Puopolo, 25 anni, cacciatore

Una volta questa la chiamavo desolazione, ma ora è come se fosse diventata un’altra cosa. Al panificio compro una busta di taralli e una di grissini. Ora sono pronto per tornare a casa. Mi sembra di aver visto lo stato delle cose. So che c’è sempre altro, so che un paese è un lungo film e io ho visto solo qualche scena, ma è come se avessi messo l’occhio nel punto giusto. Stare mezz’ora nel bar di Anzano è come fare un’endoscopia alla ricerca dell’ulcera o del tumore. E comunque il paziente sembra che non abbia tanto ardore di guarire. La vita a un certo punto prende una sua forma e la mantiene.

Ma sarebbe un errore pensare ad Anzano come a un luogo arretrato. Sarebbe un errore anche pensare che le persone di Anzano abbiano una poetica della lentezza, una visione di resistenza all’omologazione, alla velocità che sta distruggendo il pianeta. Se l’Australia brucia, qui si fa la manutenzione della cenere. Le persone della mia età ad Anzano sembrano avere l’aria che avevano i sessantenni qualche decennio fa. Qui il guasto è esibito, nemmeno più invoca rimedi. Anche chi si lamenta del sindaco lo fa senza troppa convinzione, più che altro per aderire alla liturgia vittimistica dei paesi.
Antonio Puopolo, detto “lo spaccone”

La differenza tra un bar di Milano e quello in cui sono stato io oggi è che a Milano la gente passa, è come se diluisse nel lavoro la sua quota di delirio. Qui si sta fermi, si staziona.

Il problema non è la mancanza di tempo, ma quello di averne troppo. La birra che quasi tutti tengono in mano non mi fa pensare all’alcolismo, ma a una piccola bombola di ossigeno. Allora il bar è una sorta di ospedale dove ognuno fa la manutenzione della sua malattia. Chi vuole occuparsi di sviluppo locale deve capire che questo è il momento di fare uno sforzo eccezionale. Questi posti non sono inerti: se non migliorano, possono solo peggiorare.

Allora bisogna venire ad Anzano sapendo che non stiamo meglio di come stanno loro. A ciascuno la sua malattia. Il comunismo come sole dell’avvenire è morto, ma si sta realizzando una sorta di comunismo del malessere.

Abitiamo luoghi diversi dello stesso male.