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È stato un amico a farci scoprire le sue canzoni. Abitando a Villapizzone, periferia Nord di Milano, vicino a uno storico insediamento rom, non aveva potuto non imparare a memoria i brani che risuonano continuamente fra le roulotte durante le vacanze. La colonna sonora dell’avvento è stata il pezzo più famoso di Banfy. Si intitola “Il Natale che verrà”. «Buon Natale!», canta lui su una base disco: «A chi sta malato a chi sta carcerato». «Cantamme più forte cantamm tutt’ quant’», continua: «che fai? non piangere, dai prega con me pure tu... non ti arrendere mai, tu puoi cambiare se lo vuoi... noi da tutti simm giudicati, simm sinti, nun ce ne importa niente, affrontando ogni giorno diverso, rischiando la vita per la libertà!». Fra i commenti al video ci sono cuori, stelle, orgoglio, «forza così».
Il 44 per cento dei Rom e dei Sinti che vivono in Italia ha la cittadinanza italiana. Più di metà ha meno di 18 anni. Sono ancora bersaglio d’odio, terreno di convivenze difficili, di integrazioni mancate, di politiche ferme. Ma qualcosa, forse, sta cambiando. Pochi giorni fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha insignito Santino Spinelli, in arte Alexian, musicista e ambasciatore della cultura romani nel mondo, del titolo di commendatore della Repubblica. È il primo rom a ricevere questo titolo. Banfy è una voce emergente delle nuove prospettive per la comunità.
Il ritornello del “Natale che verrà” è ancora persistente, in testa, quando bussiamo. Banfy esce sorridente sulla veranda del suo prefabbricato - salotto con cucina, camera da letto, bagno esterno. È in tuta; ha 28 anni, è sposato da nove, ha due bambine. «La grande è in prima elementare. Va bene a scuola, le insegnanti sono contente. La piccola è via con la mamma, fra poco torna». Risponde in accento piemontese, pure un po’ stretto. «Sono italiano da due generazioni, tortonese da anni, voto qui, vivo qui, non voglio andarmene. Ho frequentato le scuole a Pavia, la Gianni Rodari. Dopo le medie, a 17 anni, sono andato a lavorare; a 19 mi sono sposato e ho fatto famiglia».
Parla piemontese, ma canta in napoletano. Sul suo canale YouTube ha una decina di pezzi, tutti con cadenza campana. Si definisce un “cantante neomelodico”. «Non lo so perché, ma tutti qui ascoltiamo le canzoni napoletane. A me piacciono in generale i classici italiani dagli anni ’60 in poi - Gianni Morandi, Albano, Celentano, Massimo Ranieri - ma la tradizione che sento più mia è la musica napoletana. Mi viene naturale: scopro una base e inizio a cantarci sopra. In napoletano». La musica neomelodica ha messo da tempo radici fra i sinti del Nord. Due anni fa centinaia di persone, raccontava La Stampa, avevano partecipato al funerale di Giacomo Raimara, un sinti di Tortona. Il corteo funebre portava uno striscione con la sua foto da una parte, e un’immagine di Nino D’Angelo dall’altra.
«Ho iniziato a cantare insieme ai miei fratelli», racconta Banfy. «Avevamo un gruppo, ci chiamavamo “Romane Ciave”, che significa “ragazzi alla buona”: “romane” letteralmente è “il sistema”, ma vuol dire sinti, e “ciave” si traduce con ragazzi. Cantavamo nel nostro dialetto, ma io sento più mia la musica napoletana». E continua: «Scrivo canzoni continuamente. Per la maggior parte sono storie d’amore. Prendo delle tracce musicali che trovo a uso libero su Internet, e improvviso. Uno dei primi pezzi che ha funzionato si intitola “Due tacchi a spillo”. Poi il primo successo è stato “Il Natale che verrà”. Adesso ha circa 170mila visualizzazioni su YouTube. Parla del fatto che anche fra di noi c’è chi sbaglia, non siamo santi, ma la legge è uguale per tutti. Per cui chi deve pagare, paga, ma questa non può diventare una scusa per giudicare gli altri».
Non sono così tante, in assoluto, 170mila visualizzazioni. Ma nel piccolo mondo nomade italiano, è il primo fenomeno di questa portata. Nell’estate del 2018 un baby rapper del campo di Corvetto aveva conquistato migliaia di commenti e decine di titoli, articoli polemici e divertiti. Si chiama 500tony, è ancora un bambino; aveva esordito cantando con due trapper più famosi in un brano intitolato “Teste matte”. Nel video - oltre nove milioni di click - gira in go-kart fra le casette prefabbricate dell’insediamento, prendendo in prestito il gergo dei rapper più famosi in frasi come «sono pigro, sono fatto, perché mi fumano accanto».
A dicembre ha pubblicato un nuovo singolo, “Gipsylandia”, dove canta: «A scuola vedevo bambini più svegli pure di loro mamma e papà, questa è la vergogna d’Italia». Banfy è un caso completamente diverso. Meno legato al pubblico e ai meme della rete, più a quello della sua gente. «In otto mesi avrò fatto qualcosa come 40, 50 concerti. Sono stato a Roma, Udine, Modena, Carpi. Una volta andando a Treviso mi ha fermato un gruppo di sinti che mi aveva riconosciuto per caso in Autogrill, per chiedermi una foto. Mi chiamano per le cerimonie: matrimoni, battesimi, compleanni, a volte qualche serata in discoteca».
L’ultimo rapporto dell’Associazione 21 luglio, una realtà che da anni combatte la segregazione dei rom, stima che in Italia vivano fra baraccopoli formali e informali circa 25 mila rom e sinti. Sono lo 0,4 per cento della popolazione, ricorda lo studio. La loro aspettativa di vita è di 10 anni inferiore a quella degli italiani. Perché vivono ai margini. In 15 mila abitano in insediamenti istituzionali - sono 127, in 74 comuni. Gli altri vivono in aggregazioni informali, le più numerose sono a Roma e a Milano, oppure in micro-insediamenti illegali, di poche famiglie. «Dal 2012 esiste una Strategia Nazionale per la loro inclusione che non è riuscita a promuovere alcun significativo impatto», scrivono gli autori della ricerca: «La sua attuazione continua a soffrire ritardi e criticità, dettate da una volontà politica che continua a mostrare tutta la sua debolezza».
Eppure iniziano a registrarsi segnali di contro tendenza, continua il rapporto: «È vero: non si è interrotta la costruzione di nuovi “campi” per soli rom, e in alcuni Comuni, da Gallarate a Cascina, passando per Roma, le ruspe hanno demolito insediamenti storici senza adeguate alternative. Ma è altrettanto vero che città come Moncalieri, Sesto Fiorentino e Palermo hanno iniziato a dare corpo alla parola “superamento dei campi” con azioni virtuose che meritano attenzione perché potrebbero rappresentare il vero segnale di discontinuità che da anni attendevamo».
La politica delle paure elettorali, e i toni a cui ha abituato l’opinione pubblica l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, soffiano ovviamente nella direzione opposta a quella indicata. Difficile dimenticare la violenza del “censimento etnico” proposto dai leader della Lega. «Il risultato è che nel solo 2018 sono stati quasi 200 gli sgomberi forzati promossi dalle autorità, su insediamenti informali», nota l’associazione. Senza dare proposte alternative, spiegano. Oppure prevedendo come unica risposta la separazione tra madri e figli minori, portati in centri d’accoglienza, e uomini, lasciati in strada.
Banfy e la sua famiglia si sono trasferiti nel campo di Tortona nel 2000. «Abbiamo asfaltato i viottoli interni, messo i contatori dell’acqua, della luce. Sono venuti anche dal Comune a verificarlo», racconta. «Io preferisco pagare la luce e l’affitto qui, che non andare in appartamento. Vivere in un condominio, chiuso in casa, in mezzo a vicini che non conosco! Non ci riuscirei mai. Ho bisogno di stare all’aperto, avere attorno i miei. Nello spiazzo abbiamo installato una stufa, l’aveva costruita mio papà. La sera, dopo cena, ci sediamo intorno e chiacchieriamo; qui siamo cugini, amici, parenti. Siamo una comunità forte. Quando c’è un funerale, ognuno dà un piccolo contributo. Così dividiamo le spese: dando 20 euro a testa riusciamo a tirar fuori i 10 mila euro che servono senza che una famiglia si sbanchi». Un crowdfunding comunitario.
Insiste, Banfy, sulla persistenza e la forza di questi legami; come sulla fede. «All’ingresso del campo abbiamo costruito una grotta con i santi e ci abbiamo messo la statua di Padre Pio». Sono stati a San Giovanni Rotondo. «E anche a fare la via crucis senza scarpe a Medjugorje. Ma soprattutto siamo andati dal Papa due volte, la prima nel 2015, la seconda a settembre. Abbiamo cantato per lui, io e i miei fratelli», mostra il video sul telefonino, e continua: «È stato bellissimo. È un Papa eccezionale. Ci ha dato l’onore di dargli la mano, di stargli vicino». Di politica invece non vuole parlare. Dice solo che «ci sono tante persone che non ci conoscono e ci giudicano solo perché siamo sinti. Questo non lo tollero. Mia figlia non è diversa da una compagna di classe solo perché non abita in un condominio. Io non ho bisogno di integrarmi, io mi sento integrato. Sono italiano».
Perché “Banfy”? «Mi chiamo Valentino. Da piccolo quando mi faceva le coccole papà mi chiamava sempre Lino, Lino, e da lì Lino Banfi, quindi Banfy per gli amici. Tutti qui abbiamo un soprannome, la gente mi conosce più come Banfy Casagrande che non per il mio nome di battesimo». Su Instagram ha pubblicato un live dal suo ultimo concerto, una festa privata in Toscana. Fra i commenti, una ragazza che scrive: «Evvivaaaa i sintiii sono i migliori... lo urlo lo grido lo canto sono sinta e me ne vanto».