La reazione del corpo-Italia passa attraverso le cariche pubbliche. Non solo quelle politiche, ma anche le associazioni, le ong e i movimenti

montecitorio
L'altra sera a “Otto e mezzo” il direttore di questo settimanale ha fatto un riferimento assai pertinente ai “Due corpi del re” di Ernst Kantorowicz (Einaudi): il re ha due corpi, quello fisico e dunque mortale, e quello, immortale, dell’eredità dinastica, che passa di padre in figlio. Questa duplicità non caratterizza solo le monarchie, ma anche le democrazie. Nelle quali al periodico ricambio dei leader fa riscontro la permanenza delle istituzioni. Ciò vale anche, e tanto più, quando uno o più leader si ammala, come accade oggi per effetto del coronavirus. Una corona, speriamo, meno duratura di quella che cingeva la testa dei re. Ciò che fa la differenza è comunque la pluralità di una leadership collettiva che si rivela ben più affidabile dei capi soli al comando, come nota ancora Marco Damilano nell’ultimo numero dell’Espresso. L’unica sorpresa positiva, tra le tante negative del momento, è stata la tenuta non solo degli amministratori politici, ma anche dei medici di servizio e della Protezione civile.

È questa leadership diffusa il vero contraltare di un possibile “stato d’eccezione”. Certo, quella che viviamo è una situazione di emergenza. Ma determinata, piuttosto che da una volontà sovrana, dalla necessità obiettiva di proteggere il Paese da un ospite aggressivo e impercettibile. Come nessun corpo umano, così nessun corpo sociale sarebbe in grado di sopravvivere senza un sistema immunitario - che nella fattispecie è costituito appunto dalle istituzioni, più resistenti di coloro che temporaneamente le occupano, perché prive di corpo fisico. Allora si può tradurre la metafora dei due corpi del re in tal modo: ciò che salva un Paese, quando i suoi leader s’indeboliscono o falliscono, è la saldezza permanente delle istituzioni.

Editoriale
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Naturalmente a patto che le istituzioni abbiano la capacità di adattarsi alle contingenze, anche le più drammatiche, come quella che stiamo vivendo. Ciò è possibile a due condizioni. Che da un lato si allarghi il recinto delle istituzioni ben al di là di quella - pure insostituibile - dello Stato sovrano. È precisamente questa sottrazione dell’architettura istituzionale all’unicità della sovranità a impedire lo scivolamento nello stato di eccezione sinistramente evocato da Carl Schmitt. Come sosteneva il grande giurista italiano Santi Romano ne "L’ordinamento giuridico" (ristampato recentemente da Quodlibet), istituzioni sono tutte le associazioni, interne, esterne o addirittura estranee allo Stato, dotate di un’organizzazione, come ad esempio le Ong, le reti di volontariato, i presidi medici locali o internazionali.

La seconda condizione è che venga meno l’annosa contrapposizione tra istituzioni e movimenti. Nel doppio senso che i movimenti che vogliono durare nel tempo devono, almeno in parte, istituzionalizzarsi. E che le istituzioni devono essere capaci di mobilitarsi, come, dopo una fase di inevitabile vacillamento sotto l’urto del coronavirus, hanno cominciato a fare quelle italiane.

Probabilmente ci vorrà tempo per uscire dalla crisi. Ma, quando alla fine ce la faremo, anche le nostre categorie politiche risulteranno cambiate. In meglio, si spera.