La rete del trasporto pubblico in Lombardia coincide con le aree del contagio e dell'inquinamento da PM10: cinque milioni di persone ogni giorno sui treni urbani e quelli dei pendolari ignare del pericolo 

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Il tramonto di sabato 15 febbraio, qui a Milano nell’ultimo weekend prima del coronavirus, resta tra i più fotografati nelle memorie dei nostri telefonini: un sole enorme, purpureo come la stella di un pianeta inesplorato, affondava la sua luce inquietante dietro i nuovi grattacieli della metropoli.

Nulla sarà più come prima in Lombardia. I morti per Covid-19 nella regione hanno ormai superato di molto i 3.245 decessi registrati (ufficialmente) in Cina durante l’epidemia. E dopo oltre un mese dall’inizio dell’emergenza italiana, mentre Pechino rimanda a casa quarantamila tra medici e infermieri e si prepara a riaprire la città di Wuhan, nei nostri ospedali si fa sempre più fatica a garantire le scorte di mascherine e protezioni adeguate per il personale in prima linea. Alla rabbia che dilaga nei reparti, si aggiunge la pressione di quanti, interpretando gli ultimi dati su ricoveri e casi gravi, vorrebbero ridurre il blocco e far respirare l’economia. Di fronte al rischio di scelte affrettate, vale la pena tornare a quella settimana di febbraio solo apparentemente senza virus. Ed esaminare cosa è successo: dal flusso dei pendolari lombardi al grave inquinamento atmosferico, che ha intossicato la Pianura Padana durante tutto lo scorso inverno. Due condizioni favorevoli, che possono aver contribuito alla diffusione più rapida rispetto al resto d’Italia e d’Europa.

Le mappe attuali di espansione dell’epidemia in Lombardia e intorno a Milano sono infatti sovrapponibili alle carte che da anni descrivono l’affollamento dei trasporti pubblici nella regione. È come se il virus Sars-Cov-2, fin dal suo arrivo nel Nord Italia, avesse preso quotidianamente la metropolitana verde verso Cologno Monzese e i comuni orientali della provincia, o la linea rossa verso Sesto San Giovanni, o la gialla verso la Comasina e gli autobus suburbani fino a Bresso, tutte località che dopo Milano sono in testa alla classifica dei contagi. Ma le infezioni si sono mosse anche in treno da e verso Lodi e Codogno, Cremona, Bergamo e Brescia, che non a caso sono le province più colpite. Ovviamente i virus non camminano soli ma con le gambe delle persone che penetrano, creando così nuovi focolai in base alle condizioni locali che incontrano.

Fino alla chiusura di scuole e università (24 febbraio), l’epidemia ha quindi potuto alimentarsi facilmente in mezzo a una popolazione di cinque milioni e duecentocinquantamila pendolari. Tanti sono i lombardi su dieci milioni di abitanti che in un periodo normale si muovono per lavoro o studio o altre ragioni ogni giorno: un milione 656 mila nella città metropolitana di Milano, che si aggiungono ai pendolari delle province di Brescia (663 mila), Bergamo (597 mila), Monza e Brianza (466 mila), Pavia (274 mila), Mantova (212 mila), Cremona (186 mila), Lecco (184 mila) e Lodi (123 mila). Sono tutti distretti che oggi hanno più di mille casi di Covid-19. Como, Varese e Sondrio sono invece le province con meno contagi.
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Le condizioni di spostamento non sono però migliorate, nemmeno dopo il 21 febbraio e la scoperta del focolaio di Codogno. Nonostante l’attuale calo fino all’80 per cento dei passeggeri, su direttiva della Regione le aziende di trasporto hanno ridotto le corse fino al 40-60 per cento rispetto ai normali giorni feriali. Il risultato è finito nelle cronache locali: tra tagli e cancellazioni, migliaia di dipendenti delle filiere che non possono chiudere o trasferire il lavoro in remoto sono dovuti salire su treni, tram e autobus pericolosamente affollati ancora nella seconda settimana di marzo. Un ulteriore favore all’epidemia, visto che nemmeno chi è costretto a muoversi trova mascherine per proteggersi.

Cosa sia probabilmente accaduto tra gennaio e febbraio sui mezzi pubblici della Lombardia lo spiega indirettamente una ricerca pubblicata il 17 marzo da un gruppo di scienziati americani sul “New England Journal of Medicine” di Boston: il virus Sars-Cov-2 è sopravvissuto come aerosol nell’aria «durante la durata del nostro esperimento (tre ore)», con una riduzione della conta virale dell’84 per cento. Mentre è stato rilevato vivo dopo 72 ore sulla plastica e 48 ore sull’acciaio inossidabile, anche se con una forte riduzione della conta virale del 99,9 per cento. Lo stesso studio dimostra anche la sopravvivenza del virus sul cartone fino a 24 ore. «Il nostro risultato», spiega Neeltje van Doremalen del National Institute of Allergy and Infectious Diseases degli Stati Uniti, «indica che la trasmissione aerea e per contatto con materiali è plausibile, poiché il virus può rimanere vitale e infettivo in aerosol per ore e sulle superfici per giorni». L’esperienza di Wuhan insegna infatti che nell’ambiente chiuso di metropolitane e treni affollati il rischio di contagio aumenta del sessanta per cento.

A inizio febbraio nessuno in Lombardia può sospettare che il virus probabilmente si sta già diffondendo sui mezzi pubblici e da qui nella vita quotidiana: più che nei luoghi di lavoro, dove non sempre i contatti sono ravvicinati, si propaga lentamente in famiglia, nei corpo a corpo di alcuni sport nel tempo libero e nei luoghi pubblici come centri commerciali, bar e ristoranti. Il 6 febbraio però un fatto casuale costringe centinaia di migliaia di pendolari a rapporti ancor più ravvicinati e per più giorni sui treni e nelle stazioni. Viaggiano tutti lungo la direttrice Sud di Milano tra Piacenza, Codogno, Lodi verso la città metropolitana: la stessa area del primo focolaio. Quella mattina a Ospedaletto Lodigiano deraglia il Frecciarossa da poco partito dalla stazione Centrale.

Ma il virus non incontra soltanto poliziotti, ferrovieri e soccorritori che accompagnano i feriti negli ospedali della zona. La linea ad alta velocità viene chiusa e dal 6 febbraio, per giorni, i treni da e per Roma sono deviati sulla vecchia ferrovia. Molti treni regionali vengono così cancellati e i pendolari sono costretti ad ammassarsi su quelli che restano.

La coincidenza con i territori del primo focolaio non sembra casuale. Un’accelerazione all’epidemia che ancora oggi segna la differenza tra la Lombardia e le regioni confinanti di Piemonte e Veneto. Ma anche tra la provincia di Piacenza, pesantemente colpita, e il resto dell’Emilia Romagna. «È un’ipotesi che approfondiremo dal punto di vista epidemiologico. Non solo stili di vita, anche episodi casuali sono determinanti nello scoppio di un’epidemia», spiega un medico di base della zona: «In Lombardia probabilmente il contagio si stava diffondendo alla stessa velocità delle altre regioni del Nord. Da noi a un certo punto l’incidente del Frecciarossa ha costretto negli stessi spazi migliaia di pendolari. E per questo solo qui c’è stata l’accelerazione dei casi che ha fatto scoprire il primo paziente. A quel punto la diffusione dei tamponi alle altre province lombarde, come Cremona e Bergamo, ha rivelato quello che era in incubazione da giorni».
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Gli orizzonti infuocati, come il pomeriggio del 15 febbraio, sono l’indizio di un’altra condizione che probabilmente ha favorito il virus più in Lombardia che altrove. Gennaio e febbraio hanno regalato tramonti spettacolari. Ma i colori intensi dell’atmosfera sono anche sintomo di un forte tasso di inquinamento. Alta pressione costante, inversione termica e totale assenza di vento per settimane: lo scorso inverno l’aria è stata così irrespirabile che molte squadre sportive lombarde hanno sospeso gli allenamenti o li hanno trasferiti al chiuso. Per diversi giorni la concentrazione di PM10, il materiale particolato con dimensione inferiore a 10 millesimi di millimetro che penetra nei nostri polmoni, ha raggiunto gli 80-100 microgrammi per metro cubo d’aria in molte centraline della Pianura Padana, fino al doppio del limite di legge. Livelli pericolosi anche per il PM2,5 e il diossido di azoto, derivato dai gas emessi dagli impianti di riscaldamento e dal traffico.

La stretta relazione tra virus e inquinamento è dimostrata da anni. Ed è stata ricordata in questi giorni da un rapporto della Società italiana di medicina ambientale. «È noto che il particolato atmosferico funziona da vettore di trasporto per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus», dice Leonardo Setti, ricercatore dell’Università di Bologna che ha firmato il documento con colleghi di Bari, Trieste e Milano: «I virus si attaccano, con un processo di coagulazione, al particolato atmosferico, costituito da particelle solide e liquide in grado di rimanere in atmosfera». Ovviamente è molto più probabile il contagio tra persone e per questo al momento non resta che rimanere fermi. Ma della relazione tra inquinamento e virus bisognerà tenerne conto fino a quando l’epidemia di Covid-19 non sarà eradicata.

Già nel 2010 le Università cinesi di Pechino e di Lenzhou hanno dimostrato la stretta correlazione tra particolato, condizioni meteorologiche e casi giornalieri di morbillo nel periodo tra il 2005 e il 2009. Gli scienziati hanno calcolato le infezioni innescate dai singoli inquinanti, la percentuale di aumento dei casi e il relativo ritardo in giorni. Uno studio americano del 2008, intitolato “Air pollution end respiratory viral infection” e firmato da Jonathan Ciencewicki e Ilona Jaspers della University of North Carolina, potrebbe invece aiutare a comprendere come il virus partito da Wuhan per conquistare le vie respiratorie sfrutti inquinanti come il particolato, il diossido di azoto e l’ozono, veleni di cui è ricca l’aria lombarda. Così come quella della metropoli cinese di undici milioni di abitanti.
I ricercatori hanno messo in relazione condizioni atmosferiche e ricoveri in ospedale.

Viene anche citata un’indagine eseguita a Roma per tre anni e pubblicata nel 2001: «Gli autori osservano che gli stessi livelli giornalieri di diossido di azoto erano significativamente associati a ricoveri per infezioni respiratorie». Queste le percentuali: da un +4 per cento per le infezioni acute a un +10,7 per cento per l’asma nei bambini. Gli scienziati americani spiegano anche come la quantità di virus necessaria a infettare i topi di laboratorio esposti al diossido d’azoto sia cento volte inferiore rispetto ai topi che hanno respirato aria pulita: sono bastati appena due giorni di esposizione per sei ore al giorno ad ottenere il risultato.

Anche il particolato apre il corpo ai virus che provocano infezioni respiratorie. Nel 2004 è stato dimostrato come un incremento di PM di 10 microgrammi per metro cubo nel corso degli anni provochi un aumento del rischio di mortalità per polmonite e influenza. E come un picco di 60 microgrammi per metro cubo faccia aumentare del 27 per cento le infezioni virali alle vie respiratorie nei bambini (laringofaringotracheiti). Altre ricerche, citate nello studio del 2008, hanno poi esaminato gli effetti di PM10 e PM2,5 sui macrofagi del nostro sistema immunitario e sulla conseguente riduzione della loro risposta alle infezioni. Anche se non si conosce ancora molto del rapporto tra Sars-Cov-2 e inquinamento, bisogna subito pensare al futuro: serviranno decisioni radicali perché l’epidemia non si ripresenti con il prossimo inverno.

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