Prima la salute, poi la produzione, ha ripetuto il governo. Ma nella città dell’Ilva per anni è stato detto l’opposto. e l’alternativa continua a essere: o muori di cancro o di fame. Viaggio nei quartieri abituati a vivere con l’incertezza (Foto di Christian Mantuano)

Il rione Tamburi di Taranto durante la pandemia Covid-19. Taranto 6 Aprile 2020. Christian Mantuano / OneShot
Quando arrivando dalla Statale 7 che passa per Massafra la distesa fiorita di pecore e di campi verdi è interrotta dall’ergersi ciclopico del Mostro e anche i guardrail si fanno decrepiti per l’effetto delle polveri che li rodono, si capisce che a Taranto, in fondo, non sta succedendo niente.

Niente, è chiaro, a paragone con quel che già succedeva già. Come se qui un bel pezzo di film l’avessero già visto. C’è il tremendo Covid, che sinora ha contagiato circa 200 persone in tutta la provincia, e uno stop che almeno ha abbassato i rumori dell’industria. Nel centro, sul lungomare, sono tornati di nuovo l’odore del maree dell’erba: ma per le strade del quartiere Tamburi, quello più a ridosso, la puzza dell’inferno resta quella di prima.

All’impianto siderurgico i parcheggi sono semivuoti. Dice a fine turno Giuseppe, che ha passato metà nella sua vita a fare dentro e fuori dal Mostro: «È vero, putroppo abbiamo avuto un collega positivo, e speriamo che non abbia contagiato nessuno. Ma io mi preoccupo più della gestione dell’acciaieria che del virus. Lo chieda a tutti quanti, vedrà: diranno la stessa cosa che dico io. Quando entri dentro ti metti paura. E io sono soltanto un operaio, chissà quante cose tremende vedono i dirigenti». All’ex Ilva, ovviamente, si lavora lo stesso, anche ora: meno persone, produzione calata da 4,7 a 3 milioni di tonnellate, tutto al minimo secondo decreti: c’è chi fa notare che la voglia di ritirarsi di Arcelor Mittal si mescola con le esigenze dell’emergenza, e che alla fine la forza lavoro impiegata è la stessa, e che comunque in altre parti d’Europa non hanno nemmeno ridotto i ritmi produttivi. Ci sono le misure protocollate, le mascherine, si rileva la temperatura. Sembra quasi una beffa: «Ti misurano la febbre, ma resta più pericolosa la sicurezza, rispetto al contagio. Vai a lavorare, ogni giorno, ma non sai se esci intero e vivo», dice ancora Giuseppe.
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Con questa incertezza Taranto è abituata a vivere da un tempo così lungo da confinare con l’eternità. Così, per esempio, camminando per il Tamburi adesso trovi la gente che si parla urlando da una finestra all’altra, senza uscire di casa perché così prevede il lockdown. Ma i tarantini, a differenza degli altri italiani, sono già abituati da un pezzo a confrontarsi con i “wind days”, giorni nei quali è sconsigliato uscire di casa perché il vento soffia da nord e nord ovest, lungo la direttrice acciaieria-città, e «seppellisce» e «soffoca» come c’è scritto su una targa al muro che maledice «coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare».

Bambini e genitori sono già abituati alla chiusura delle scuole per motivi di salute. Un anno fa, giusto i primi di marzo, era soltanto colpa della diossina, schizzata secondo i dai ufficiali dell’Arpa a un +916 per cento rispetto al 2018, come dieci anni prima. Adesso, a scuole ugualmente chiuse, il virus ha portato una diffidenza in più, e quasi nessuno vuol essere interpellato su come si trova all’epoca del Covid. Come se fosse troppo, dover articolare anche questo.

A Taranto nessuno ha cantato dai balconi. E i terrazzi condominiali, in tante altre città luogo-simbolo di resistenza e rinascita, restano vuoti, deserti: forse per quell’uso distratto e svogliato che si fa degli esterni, al sud che ne abbonda; forse perché, molto prima dei rischi da assembramento, è sempre stata proprio l’aria a portare la morte. E tutt’ora si intravede sui muri dei quartieri a ridosso dell’acciaieria quella polvere impalpabile che si deposita sulle cose e se le mangia.

C’è una riga, in fondo a un comunicato sindacale sull’Ilva datato 24 marzo, che dice tutto. È la conclusione: «Per quanto ci riguarda, la salute dei lavoratori e delle loro famiglie viene prima della produzione». Sono più o meno le stesse parole che ha usato il premier Giuseppe Conte in una delle sue ultime apparizioni televisive: la salute, prima dell’economia. Parole che qua hanno un suono diverso: perché sono consumate, e perché sono state maneggiate diversamente. L’emergenza sanitaria ha portato infatti tutta l’Italia ad affrontare qualcosa che da queste parti si soppesa da decenni: l’insolvibile conflitto - ma necessaria composizione - tra lavoro e salute. Che nell’Era del Covid, adesso è declinato come dicono i sindacati, come dice il premier, come tendenzialmente direbbe il buonsenso: prima la salute, poi la produzione.

Per Taranto, invece, è stato sempre l’inverso: prima la produzione, il lavoro, l’acciaio. Per la salute vedremo. Che adesso, dopo tanti anni, le parti siano invertite, suona come l’ennesimo in una costellazione di paradossi. Insieme col fatto che, per fare un esempio, nonostante il lockdown ancora non ci siano dati certi su un minore inquinamento nell’aria. O che si raccomandi di arieggiare le case, per far uscire il virus, quando invece a Taranto da sempre si raccomanda di non arieggiare le case, certi giorni almeno, per non fare entrare il cancro. O, ancora, come la paradossale questione dei picchi.

Racconta Alessandro Marescotti, professore d’italiano a Taranto e presidente dell’associazione Peacelink che l’anno scorso inchiodò Luigi Di Maio e i Cinque stelle («mi guardi ministro») alla loro «pubblicità ingannevole» sull’Ilva: «Quello che la Protezione civile fa ogni sera in tv, quando elenca i numeri di contagiati, ricoverati, morti, è proprio ciò che avevamo chiesto di fare, e non si è mai fatto, per Taranto». Lui lo aveva domandato già un anno fa, pubblicamente e per iscritto, anche alla titolare della Salute Giulia Grillo, quando la parola picco non era così di moda: «Avete calcolato quando ci sarà e di che entità sarà il picco dei tumori?». Allora non era immediatamente chiaro il perché, ma adesso sì: «In tutta Italia il numero dei tumori decresce, a Taranto invece cresce. In epidemiologia, come principio generale, quando c’è un fenomeno anomalo, è essenziale capire il trend. Calcolare il picco significa che tu hai una strategia e la vuoi misurare, superarlo significa che quella strategia sta funzionando.

A Taranto, invece nessuno si è mai posto il problema. Non c’è stato un Borrelli coi dati quotidiani, non c’è stato questo tipo di monitoraggio, l’obiettivo è stato declamato e mai perseguito. “Bisogna conciliare salute e lavoro, lavoro e salute”, abbiamo miliardi di dichiarazioni così, ma non abbiamo mai avuto un preciso criterio di verifica di come procedessero le cose», spiega il professore, che ha per ora messo da parte le altre battaglie, in nome della «coesione nazionale necessaria», per buttarsi a capofitto nella didattica a distanza, alla quale sta dedicando anche dei corsi per gli insegnanti, essendo un pioniere della materia («con le mie classi abbiamo un quaderno digitale da tre anni»).

Già. Per Taranto si è sempre parlato di conciliare, al massimo. Tra gli operai continua a prevalere il detto: o muori di cancro, o muori di fame. «Tutti sono preoccupati, ma tutti vogliono lavorare. Di scioperi, infatti, non se ne fanno», racconta ancora Giuseppe, ricordando di quando, proprio nell’aprile di sette anni fa, ci fu il referendum consultivo sulla chiusura dell’Ilva: «Me la prendo anche coi tarantini, perché allora non andò a votare nemmeno il trenta per cento delle persone». Fu il 19,5, uno su cinque, per l’esattezza: e al quartiere Tamburi anche meno. «Perché se chiude l’Ilva chiudono tante altre attività: avanza la disoccupazione, resta solo la raccolta dei pomodori, qua non è come al nord, lavoro non ce ne sta», dice Giuseppe.

Ecco la famosa equazione, ora tanto frequentata: se chiudi tutto, poi di cosa vivi? Nel rapporto tra economia e difesa della salute Silvia Torsella Della Corte, avvocata del lavoro, dice di trovare lampanti le somiglianze tra Taranto e l’attualità, ma che fuori dalla sua città è difficile coglierla: «Taranto ha fatto da apripista sotto tanti aspetti, persino la questione dello scudo per i medici e gli amministratori sanitari che si è ipotizzata nei giorni scorsi ha profili di somglianza con scudo penale per Arcelor Mittal. Non ci sono altri precedenti: il caso dell’ex Ilva l’ha sdoganato, e ora è stato riproposto». C’è poi la questione della priorità, tra economia e salute: «Un decreto del 2013 definisce l’Ilva uno stabilimento la cui attività produttiva comporta “oggettivamente pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute”. Dopo il sequestro, fu concessa per decreto la facoltà d’uso per massimo 36 mesi, data la “assoluta necessità di salvaguardare la produzione e l’occupazione”. Sono passati otto anni». Pure è interessante la reazione delle persone di fronte al rischio di morte: «Tutti rispettano le misure di contenimento, perché il virus è come una roulette russa: ciascuno ha la pistola alla tempia, nessuno è disposto a correre il rischio di ammalarsi. E, invece, il rischio epidemiologico dell’inquinamento a Taranto produce nella gente l’effetto contrario: si abbassa la percezione del pericolo. Anche se si tratta sempre di una pistola puntata alla tempia». C’entra forse anche il fattore tempo: «Il Covid è immediato, di tumore forse ti ammalerai chissà tra quanto, e la diluizione fa perdere la nozione di causalità, il nesso. E invece c’è», conclude l’avvocata.

Adesso che, proprio nel giorno in cui chiudevano le scuole, si è raggiunta una sostanziale tregua tra amministrazione straordinaria e Arcelor Mittal, con un accordo che scongiura la «causa del secolo» per il recesso della multinazionale (che se ne potrà andare a dicembre pagando 500 milioni), il paradosso è che l’ex Ilva produce lo stesso, ma col segno meno. Cioè non è redditizia: «All’Ilva si lavora per perdere due milioni al giorno», calcola Marescotti. Per essere competitiva, dovrebbe produrre 7-8 milioni di tonnellate l’anno, invece delle attuali 4,7 (o 3 di questi giorni). Ma non può arrivare a quella soglia perché, per le tecnologie in uso, l’aumento della produzione sarebbe insostenibile per l’ambiente. «Insomma, allo stato, è condannata a non avere futuro. Bisogna che qualcuno si faccia carico di queste contraddizioni», dice Marescotti. Perché altrimenti «sarebbe come ritenere persa la battaglia sul coronavirus e disinteressarsene».

L’atteggiamento su Taranto, continua il presidente di Peacelink, è in effetti «molto simile a quello che hanno avuto Boris Johnson e di Donald Trump nei confronti del Covid. Hanno detto: di questa cosa non me ne preoccupo, avado avanti, produco. Così è stato per noi: solo che il virus è un tema mondiale, mentre quello Taranto è visto come un problema confinato a Taranto. Il che fa di questa una città condannata, assediata dai decreti, sperando che gettiamo la spugna. Irresponsabile, oltreché disumano. Siamo come una Sarajevo. Ma quanto ancora dovremo resistere?».