Lo smarrimento degli sguardi, la fragilità dei corpi, l’impossibilità di dire Dio, di dirsi addio. La carezza che saluta chi sta lasciando la sua casa su una barella trascinata giù per le scale. Negli scatti di Bucciarelli, pubblicati in esclusiva sull'Espresso, c’è il bloccarsi sul momento del dramma, quando la vita di ogni giorno finisce. Ma anche la consolazione e il prendersi cura dell'altro (Foto di Fabio Bucciarelli)

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La Cura e la Pietà. Cosa ci porteremo dietro, tutto quello che di queste giornate non potremo dimenticare, è solo questo, è tutto qui. Lo smarrimento degli sguardi, la fragilità dei corpi, l’impossibilità di dire Dio, di dirsi addio. La carezza che saluta chi sta lasciando la sua casa su una barella trascinata giù per le scale, era il luogo sicuro, il condominio, la palazzina, con le scale da salire e scendere ogni giorno, è qui che ora ogni gesto si consuma come definitivo, con l’angoscia che sia l’ultimo.

Chi ha affrontato un momento simile, chi ha veduto un genitore o una persona cara uscire di casa per andare in un ospedale in emergenza, conosce la paura non espressa perché reale e terribile, l’esplodere nel petto dell’ansia, il precipitare allucinato di ogni istante, così rapido che non te ne accorgi, così lento che sarai destinato a riviverlo mille volte. Tutto risucchiato, in un unico momento convulso. Il pigiama, le pantofole, il copriletto colorato e caldo, le foto accanto al letto con la cornice, le madonnine alle pareti, le mensole affollate di ricordi, lo specchio sul comò davanti al quale ogni giorno ti pettinavi prima di uscire e oggi invece non ci sarà neppure il tempo di dare l’ultimo sguardo, per vedere se almeno sei in ordine, mentre vai via.
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Lasciano così, in tantissimi, le loro case, le residenze assistite, i centri di riposo che sono una trappola. Se ne vanno come ce li mostra Fabio Bucciarelli, alcune delle sue foto sono state pubblicate dal New York Times e hanno fatto il giro del mondo, pubblichiamo sull’Espresso per la prima volta la serie integrale e inedita. Sono i frammenti di una notte nella provincia di Bergamo, sono le immagini universali che la sensibilità di un reporter straordinario ha fermato per sempre, per racchiudere tutto quello che non potremo mai dimenticare per anni e anni.

Siamo in Italia, siamo nel cuore di Madrid, a Central Park a New York, siamo in Africa, in Cina, India, Messico, Brasile, e poi siamo di nuovo ad Alzano Lombardo, a Cenate Sotto, a Pradalunga, a Gazzaniga, in quelle case ci siamo tutti, tutti siamo accanto al signor Claudio, alla signora Teresina, a Maddalena, tutti condividiamo l’allarme e il rigore di Nadia Vallati della Croce Rossa. Ci siamo tutti dentro queste stanze, in quei corridoi, quella cucina, a dare quella carezza.
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Siamo lì dove non possiamo dimenticare di essere stati, in questo luogo del mondo, in questo tempo, in questo inizio di primavera così mite che fa male. «Ebbero il tempo di seppellire i loro morti in una tomba fraterna», ha scritto Elias Canetti. Per i nostri morti non c’è stato neppure questo tempo. Nella provincia di Bergamo sono molto di più dei dichiarati: 4500 in un mese, più del doppio dei 2000 ufficiali di covid-19. Muoiono in casa, nuovo luogo del contagio, e non ospedale.

Domenica 5 aprile è per i cattolici la domenica delle Palme, in cui si fa memoria di un ingresso trionfale e del tradimento di un amico, di una condanna ingiusta, la crocifissione, l’abbandono, la solitudine di fronte alla morte. Il silenzio del cielo, il buio su tutta la terra, il velo squarciato, la fine di ogni fede, di ogni certezza. Domenica 5 aprile è anche la laica giornata universale della coscienza, proclamata dalle Nazioni Unite, per ricordare che all’articolo 1 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si afferma che tutti gli esseri umani sono dotati di ragione e di coscienza. La coscienza percorsa da mille inquietudini, ecco un’altra cosa che non potremo dimenticare di queste settimane. Si danno battaglia, nella coscienza di ciascuno e a ore alterne, oltre che nel dibattito politico, il partito di chi considera il virus come una parentesi, dopo la quale tutto dovrà tornare in fretta come prima, alla felice normalità perduta, come la Vienna dopo lo sparo di Sarajevo descritta da Karl Kraus in Gli ultimi giorni dell’umanità: «Hanno ucciso l’Arciduca? Sarà un danno enorme per i teatri, il Volkstheater era tutto esaurito... bella serata rovinata». E il partito di chi ritiene che invece il virus sarà uno spartiacque della storia, che cambierà tutto. In meglio, sostengono i cantori del tempo presente che non si fanno mai sgualcire dalla certezza di essere sempre accomodati nella piega giusta della storia, sempre seduti al tavolo d’onore della festa.

Quel che si vede in questi giorni di riflessioni su quello che avverrà dopo, in realtà, è che l’unità vacilla per cedere il passo alla frammentazione. L’emergenza si fa burocrazia che indica ai cittadini i metri da percorrere, la compagnia di un bambino o di un cane, in un florilegio di disposizioni, decreti, interpretazioni, spesso in contrasto tra loro. L’Inps litiga con i cittadini, le regioni litigano con lo Stato centrale, l’Italia litiga con gli altri paesi europei, in Ungheria e non solo i nazionalisti ne approfittano per chiudere la democrazia. Il virus distanzia, disgrega e ancor più lo farà dopo la decisione del governo di prorogare il lockdown.
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Sarà necessario ragionare caso per caso, regione per regione e città per città, per evitare lo spettacolo di un pezzo di paese che già si spacca sul dopo mentre un altro pezzo ancora lotta per sopravvivere e la maggior parte dei cittadini teme per la prima volta da generazioni la povertà, la mancanza di futuro, la rabbia. Servirà una leadership diffusa in grado di compiere scelte e distinzioni, in una strategia comune, più che appiattire tutto in una sola parola d’ordine, come è stato necessario fino ad oggi. E considerare il corpo del Paese, la sua ossatura, il suo sistema nervoso, la sua tenuta democratica, vulnerabile e fragile come il corpo di una persona quando sta scendendo il livello dell’ossigeno. Quando c’è bisogno di aria, di respiro, di cura.

La Cura e la Pietà. Negli scatti di Fabio Bucciarelli c’è il bloccarsi sul momento del dramma, quando la vita di ogni giorno finisce. E c’è la consolazione, il prendersi cura, Teresina sollevata come una bambina dal suo letto, la delicatezza dei soccoritori. È tutto quel che ci porteremo dietro, in questo buio su tutta la terra, in questa notte, in questo dolore. E ce lo mettiamo in un angolo di cuore, lo portiamo con noi questo abbraccio di tutti, questo affidarsi, per ricordarlo quando arriverà il dopo, per non dimenticarlo più, questo istante di povera, consumata, disperata fraternità.

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