Man mano che si dischiude la Ripartenza emergono le nostre debolezze strutturali, vecchie e nuove. I contrasti di potere, la pubblica amministrazione in panne, la moltiplicazione dei comitati, l’ansia da iper-comunicazione. E si evidenzia il problema più grave: l’errore di sistema

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È la fase Zero del nostro Paese. Man mano che si dischiude la Ripartenza, la ribattezzata fase due, o fase due/A - come la definisce il decreto della presidenza del Consiglio (Dpcm) del 26 aprile - tornano alla luce le debolezze strutturali italiane: la dissonanza tra governo centrale e articolazioni regionali, la pubblica amministrazione lenta e inefficace, i particolarismi che difendono ferocemente il loro interesse.

I mali antichi cui si aggiungono i nuovi attori emersi dai mesi dell’emergenza coronavirus: gli indirizzi del comitato tecnico-scientifico, utili nelle settimane più drammatiche per convincere tutti a restare a casa in presenza dell’aggressività del virus ma scomodi ora che si tratta di far passare il messaggio che l’epidemia è terminata, la proliferazione delle voci causata dalla moltiplicazione dei comitati, l’ansia da iper-comunicazione del presidente del Consiglio.

Si è ripetuto per due mesi che l’emergenza avrebbe cambiato tutto: il nostro modo di produrre e di consumare, il nostro modo di pensare, il nostro rapporto con lo Stato e con le istituzioni pubbliche, il nostro sentirci comunità, i nostri sentimenti e la loro manifestazione esterna. Invece, al primo timido riaprire delle attività, si è vista la fretta di ripartire.

Con dimenticanze clamorose, ad esempio nel piano di ripresa non c’è una riga sulla questione ambientale, come ha denunciato Stefano Liberti. Il primo centro-sinistra della storia italiana, quello della stagione di Aldo Moro, Pietro Nenni, Riccardo Lombardi e Ugo La Malfa negli anni Sessanta, si divise tra i sostenitori delle riforme di struttura, che avrebbero dovuto incidere sul sistema e sulle sue malattie storiche, e i congiunturalisti, che volevano andare sugli effetti ultimi, senza andare alle cause profonde. Siamo ancora lì. Parliamo della gestione e non del sistema e delle sue fragilità storiche, della sua impossibilità di funzionare. Ci ritroviamo come prima della crisi. Soltanto più ansiosi, preoccupati. E impoveriti.
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Sul piano economico, la crisi 2020 con i suoi fondamentali che fanno paura perché esorbitanti, oltre ogni limite (il Pil al meno otto per cento, il debito al 155,7, il deficit al 10,4), si abbatte sulle fragilità storiche dell’Italia (il divario tra il Nord e il Sud, la crescita ineguale, la precarietà del lavoro) e sulle sue ricchezze, il tessuto di piccole e medie aziende unico in Europa che rischia di uscire stremato dall’improvvisa strozzatura rappresentata dal dopo virus.

Sul piano sociale, la bomba povertà, di cui scrivono sull'Espresso di questa settimana Vittorio Malagutti, Francesca Sironi e Gloria Riva: studi professionali chiusi, partite Iva in stato di prostrazione, oltre undici milioni di lavoratori che ricorrono al sussidio pubblico. Il sistema di infrastrutture e trasporti urbani che dovrebbe consentire la ripartenza era già allo stremo in molte situazioni locali, a partire dalla Capitale, ora è atteso al collasso finale, nonostante l’ottima notizia della riapertura del ponte Morandi a Genova. Gli orari e i tempi di lavoro, la necessità di non lavorare tutti insieme alla stessa ora, erano materia di convegno per esperti da decenni, ma nel frattempo quasi nulla è stato fatto e ora diventano una misura di urgente necessità ma senza possibilità di immediata realizzazione.

La questione femminile è la più grave emergenza nell’emergenza: le donne sono le grandi dimenticate della Ripartenza, sono assenti nei centri decisionali, nella pletora dei comitati che si candidano a cabina di regia della ripresa, assenti nella burocrazia che traduce in decreti e ordinanze le indicazioni dei comitati, assenti nelle politiche pubbliche dei prossimi mesi. Così, con i bambini a casa per le scuole chiuse e gli anziani impossibilitati a svolgere quell’azione di supplenza che tiene da solo in piedi il welfare familiare, quel modello italiano che ha fatto da paracadute nelle crisi degli ultimi anni, il lavoro di cura della famiglia viene ridotto a un intervento sui congedi e al bonus baby sitter che non risponde a nessuna domanda tra quelle che in questi giorni e nelle prossime ore angoscia le famiglie italiane.

Sul piano politico, la Ripartenza è segnata dal ritorno delle piccole e grandi manovre attorno alla durata del governo. L’opposizione del duo Salvini-Meloni si è dimostrata irresponsabile come nessuna altra in Europa, alternando mozioni di sfiducia (contro il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri), rifiuto di ogni collaborazione e un paradossale invito a ritornare in piazza, ipotizzato dal leader della Lega in crisi di consensi e assediato all’interno del suo partito dalla concorrenza di Luca Zaia (Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian raccontano l’ascesa del presidente del Veneto e la simmetrica caduta del modello lombardo di Attilio Fontana e dei giovani leoni salvinisti che lo circondano).

Ma la maggioranza che sostiene il governo Conte non sta meglio in salute, bombardata dall’interno (Matteo Renzi sembra pronto a chiudere la parentesi, all’ heri dicebamus : il giorno del paziente uno di Codogno, venerdì 21 febbraio, le prime pagine dei quotidiani erano dedicate a un vertice da organizzare tra il capo di Italia Viva e Conte e La Stampa titolava su un piano Renzi «per sostituire Conte con Mario Draghi») e dall’esterno, con il Bruce Chatwin dei 5 Stelle, Alessandro Di Battista, che spinge il movimento a chiedersi che ci faccio qui?, ovvero che ci facciamo noi della Casaleggio alleati con il Pd.

Il premier Conte sognava una fase due da salvatore della patria, ma ha dimenticato che anche Winston Churchill dopo aver vinto nell’ora più buia del conflitto mondiale, per far posto all’incolore Clement Attlee. E Conte non è Churchill, e neppure Attlee. Ha maturato in questi quasi due anni di Palazzo Chigi una astuzia naturale, un’agilità di navigazione, una abilità nel destreggiarsi tra i palazzi e quel che resta dei partiti in Italia e in Europa. Ha rinverdito la vocazione italiana al trasformismo, mettendo insieme i diavoli e le acquasantiere, ma l’emergenza imponeva a tutti la stessa scelta mentre ora serve la leadership, ovvero la capacità di distinguere caso per caso e di far prevalere l’interesse generale.

Quello che si vede, invece, è il dettaglio, il codicillo, il provvedimento da asporto, le improvvisazioni lessicali come quella sull’identità dei congiunti trasformati in affetti stabili, tutto questo parla di quella particolare professionalità del premier avvocato che consiste nello sminuzzare le questioni e rimandare al dopo una visione complessiva. Per ora è un Ripartopoly, come il gioco curato da Susanna Turco e Emanuele Fucecchi che offriamo ai lettori in edicola come momento di svago, per riderci almeno un po’ su.

C’è una fase Zero sul piano dei rapporti internazionali. In controluce si vede la lotta per decidere chi guida il mondo, tra gli Stati Uniti e le autocrazie come Cina e Russia, ciascuna con i propri punti di riferimento locali. Il 7 maggio il mondo celebra i 75 anni dalla fine del conflitto mondiale che ha aperto una lunga fase di egemonia americana e di costruzione dell’unità europea. Oggi si prova un cambio di leadership, anche per il distacco dell’amministrazione Trump dal vecchio continente. L’Europa prova a reagire con l’introduzione di nuovi strumenti e una nuova solidarietà tra i governi nazionali, faticosa e incerta perché il multilateralismo rischia di essere tra le vittime della pandemia.

Siamo alla fase Zero anche un piano culturale e intellettuale, come ha ammesso il segretario del Pd Nicola Zingaretti, che ha parlato di «un deserto di pensiero, un rifiuto di esame di coscienza collettivo, la fretta di ricominciare come se nulla fosse cambiato». Tutto giusto, anche se dal partito architrave del governo ci si aspetta qualcosa di più dell’analisi.

C’è un’emergenza immateriale, accanto a quella materiale e economica, che l’emergenza coronavirus ha fatto emergere. Sono assenti dai provvedimenti governativi le agenzie di senso che tengono unito un paese, dalla scuola all’associazionismo alle comunità religiose, ugualmente mortificate. «Oltre ai beni materiali, che sono la base per la vita biologica, ci sono anche i beni relazionali e dei beni spirituali, che contribuiscono insieme al benessere globale della persona: corpo, affetti, mente, anima», ha scritto in una lettera aperta ai sindaci della sua diocesi il vescovo di Modena e Carpi Erio Castellucci. E dunque: centri estivi per i bambini, assistenza ai disabili, soccorso per i poveri vecchi e nuovi.

La Chiesa non è un’agenzia di baby sitter e neppure una Ong, ma a questa altezza doveva essere portata la polemica sul divieto delle messe e degli altri riti religiosi, se solo la Conferenza episcopale italiana fosse stata capace di spiegarlo e non di muoversi come una lobby tra le altre, per di più irrilevante.

L’emergenza immateriale, psicologica, esistenziale, spirituale, è invisibile agli occhi della politica e delle statistiche, ma lacera la vita quotidiana delle famiglie e delle persone, divise tra la spinta a ripartire e la richiesta di cura che arriva dai più esposti al dramma, i bambini e gli anziani.

La ferita non rinchiusa, anzi ignorata, che fa da sfondo silenzioso alla tragedia delle 26 mila vittime del covid di questi due mesi, anzi di più. Una delle tante. Errori ne sono stati fatti, e molti, ma non si tratta solo di cattiva gestione dell’attuale governo, ma di un più grave errore di sistema. Quello che paralizza tutto. E andrebbe affrontato come tale: su questo si giudicano una classe dirigente e la sua capacità di leadership.