Parla un ex miliziano dell'organizzazione che ha rapito la cooperante: «Metodi molto persuasivi che possono affascinare. Io ci sono caduto, poi ho capito che vogliono solo più potere»

silavia-jpg
Ottenere la liberazione di Silvia Romano non è stato facile, sono stati necessari 535 giorni di ricerche, contatti, trattative.

L’operazione congiunta, che ha visto lavorare insieme tre diverse intelligence, italiana, somala e turca, è riuscita a portare in salvo la cooperante milanese 25enne, rapita in Kenya il 20 novembre del 2018, solo grazie a un serrato negoziato segreto con mediatori locali in contatto con il gruppo islamista.

«Il passaggio di mano dai sequestratori che l’hanno prelevata a Chakama ai terroristi somali», racconta Omer Abdullah, giornalista keniota che ha seguito tutte le fasi del sequestro, «è avvenuto poco dopo il rapimento della Romano, quindi lei ha trascorso un tempo lunghissimo con i miliziani di al Shabaab. Inoltre è stata esposta a rischi continui.

Gli estremisti islamici somali da mesi stanno mettendo in campo tutte le loro forze per espandere il loro potere con l'obiettivo di allargare il loro raggio di azione in Kenya e negli altri paesi confinanti. La Somalia è per loro il trampolino di lancio per il resto dell'Africa dell'est, anche grazie all'aiuto di forze esterne che in qualche modo interferiscono nelle questioni somale. Non a caso le armi continuano ad arrivare facilmente nelle loro mani».
 
Le azioni di al Shabaab si abbattono su istallazioni e contingenti militari ma anche sui civili, obiettivi di attentati simbolici compiuti al fine di assumere un ruolo di maggiore rilevanza nel panorama dell’estremismo jihadista regionale.

Come l’assalto a un hotel internazionale di Mogadiscio nell’ottobre del 2017, che ha provocato più di 500 vittime: il più micidiale attacco terroristico dall'11 settembre del 2001 negli Stati Uniti.

A raccontarci dal di dentro al-Shabaab è un "pentito", Ahmed (utilizziamo uno pseudonimo per non esporre l’ex combattente al rischio di rappresaglie), 24 anni, nato in Kenya.

Nel 2017, quando ha saputo che avrebbe dovuto attaccare il villaggio in cui era nato, Ahmed ha deciso di disertare. Ha preferito fuggire piuttosto che uccidere suoi familiari e amici. Si è allontanato di notte, percorrendo a piedi il tratto di foresta che dal confine somalo porta in Kenya. Ha camminato per chilometri fino a raggiungere, dopo cinque giorni, il primo centro abitato.

Da lì è arrivato a Malindi dove ha chiesto alle autorità il diritto di asilo.

«Mi è stata concessa l'amnistia per i crimini commessi e sono stato inserito nell'ambito di un programma del governo keniota per riabilitare i disertori di al-Shabaab che, come me, erano stati arruolati nelle moschee da reclutatori che si erano inseriti nelle comunità locali per fare proseliti da mandare sui campi di battaglia somali», ricorda l’ex terrorista, che oggi vive a Nairobi e si occupa di cooperazione.

«La mia era stata una scelta di fede, ho combattuto per questo, non per soldi. Ma il mio credo è stato insanguinato da troppe atrocità. Ora vivo nella paura che prima o poi mi trovino e mi uccidano, ma non tornerei indietro», spiega sicuro della sua scelta.

La sua lealtà verso al-Shabaab comincia a vacillare nel giugno 2017, dopo uno degli attacchi più sanguinari di sempre, a cui partecipa, del gruppo terroristico. In un doppio assalto a Mogadiscio, a due ristoranti, vengono trucidate decine di civili, tra cui donne e bambini.

«Era il mese del Ramadan, un momento sacro per noi musulmani», racconta Ahmed. «Il giorno prima ci dissero che dovevamo essere pronti a tutto, anche a non tornare. Uno di noi si è fatto esplodere all’interno di un’automobile di fronte al ristorante Post Treats, attorno alle 20, l’ora più affollata dalle famiglie. Il commando di cui facevo parte ha invece assaltato un secondo locale, il Pizza House, a pochi metri di distanza, che di solito era frequentato da stranieri ma durante le sere del Ramadan, quando i fedeli dopo l’ultima preghiera si riuniscono per mangiare dopo una giornata di digiuno, ci andavano tanti musulmani».

Da quel momento qualcosa in lui si rompe. Tornato nel campo di addestramento di Chisimaio, dove aveva trascorso gli ultimi tre anni della sua vita, alla notizia che presto l’obiettivo da colpire sarebbe stato il suo villaggio di origine comincia a progettare la fuga.

«Quando sono stato riabilitato ho deciso che dovevo fare qualcosa per impedire ad altri ragazzi di entrare in questo vortice di violenze e terrore. Oggi vado nelle scuole per mettere in guardia i più giovani dal "lavaggio del cervello", il sistema di coercizione, che il gruppo terroristico usa per suscitare assoluta devozione tra i potenziali seguaci» conclude l’ex terrorista.

Metodi talmente persuasivi che un’alta percentuale di nuove reclute, soprattutto le più giovani. quando viene chiesto loro se si sentono pronte a eventuali atti kamikaze si offre volontariamente.

Un orrore nell’orrore.