Stop all’overtourism, l'assalto ai luoghi frenetico, occasionale e di massa. Alle grandi navi da crociera, alle città d'arte colonizzate dai trolley. L’estate che si avvicina sarà all’insegna di destinazioni vicine, conosciute e rassicuranti

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Messaggio da Madrid: «Non perdiamo tempo: il lavoro perso devasta le vite...» Il primo maggio Zurab Pololikashvili, segretario generale dell’Organizzazione mondiale del Turismo (Unwto), l’agenzia delle Nazioni Unite del settore, ha lanciato l’allarme: serve una risposta urgente per fronteggiare gli effetti della pandemia sui lavoratori del turismo. Un’industria che genera il 13% del prodotto interno lordo mondiale, dà lavoro a un 1 lavoratore ogni 10 e che «per volumi è passata dai 527 milioni di movimenti internazionali del 1995 a 1,5 miliardi nel 2019», spiega all’Espresso Valentina Doorly, una lunga e autorevole esperienza nel settore e autrice di “Megatrends Defining the Future of Tourism”, in uscita nei prossimi mesi per l’editore Springer.

Le grandi navi da crociera che nel 2019 hanno trasportato 30 milioni di passeggeri (rispetto ai 18 milioni del 2009) sono ferme nei porti, come cetacei spiaggiati. Ci vorrà tempo prima che un nuovo David Foster Wallace possa metterci piede per raccontare “Una cosa divertente che non farò mai più”, l’eccezionale reportage narrativo sul turismo di massa. L’immobilità forzata dei pachidermi degli oceani mette a nudo la fragilità dell’economia politica del turismo. Ma ci fornisce qualche indicazione anche sui cambiamenti di lungo corso nell’idea di viaggio e nel nostro rapporto con il mondo.

Per quanto provvisori, i dati sono più facili da decifrare rispetto ai cambiamenti nell’immaginario. Il 100 per 100 delle destinazioni turistiche ha adottato e continua a mantenere restrizioni di viaggio, certifica l’Unwto. «È una cesura storica, un annichilimento del settore nel suo complesso» commenta Valentina Doorly. Gli arrivi turistici internazionali potrebbero ridursi del 30%, con una perdita corrispondente fino a 450 miliardi di dollari. Costruito nel corso di decenni, l’overtourism è stato disfatto in poche settimane dalla pandemia. Dall’overtourism al grado zero del turismo. In attesa della ripartenza.

«La ripresa sarà con tutta probabilità molto lenta e a scalini», nota Doorly. Le più penalizzate saranno le città d’arte a vocazione internazionale. «Questo è un virus urbanofobico, che odia le città e tutto ciò che è urbano», commenta Marco d’Eramo, autore de “Il selfie del mondo” (Feltrinelli), un’indagine sull’età del turismo che si apre con la descrizione di una Roma ridotta a guscio vuoto, fondale di teatro sul quale va in scena lo spettacolo del turismo. La Roma quasi deserta della pandemia offre allo sguardo le quinte, senza protagonisti e comparse, ma rimane dentro l’immaginario turistico: «È una sorta di spiaggia dei Caraibi, immacolata, tanto più attraente quanto più irraggiungibile. Rappresenta la coscienza infelice di ogni ogni turista, che spera sempre di trovarsi dove non ci sono altri turisti: impossibile».

Nei prossimi mesi a Roma di turisti ne arriveranno molti meno, soprattutto stranieri. «Nell’immaginario collettivo l’aereo è diventato uno spazio confinato e affollato in cui il contagio trionfa, ci sarà una rinuncia ai viaggi internazionali, conquista del ceto medio occidentale degli ultimi 20 anni», nota Valentina Doorly. Una conquista che ha trasformato intere città in oggetti di consumo frenetico e occasionale, come la Firenze descritta da Grazia Galli e Massimo Lensi ne “La filosofia del trolley. Indagine sull’overtourism a Firenze” (Garmagni editrice 2019).

Gli stessi connotati fisici delle città potrebbero cambiare. Secondo d’Eramo il principio informatore dell’urbanità e del turismo è lo zooning, che ha governato la pianificazione urbana del XX secolo, tracciando una corrispondenza biunivoca tra spazio e funzione. È l’uso esclusivo, non promiscuo, monofunzionale dello spazio. «Un principio che traduce in geografia urbana la struttura disciplinare della società», una «prima forma di biopolitica». La pandemia offre inedite opportunità agli «urbanisti demiurghi»: ogni cosa e persona al loro posto, profilassi e prevenzione per città asettiche e sterilizzate, meno promiscue, sicure. Ma le città sono promiscue per definizione, insegnano i sociologi. Si fondano sulla diversità. Troppa profilassi ne compromette la natura. I turisti in cerca di spazi sicuri punteranno ad altri luoghi. Accessibili a pochi.

«Il distanziamento sociale, introdotto come allontanamento dei corpi, si è trasformato subito in divario incolmabile tra le classi», nota d’Eramo. E il meccanismo potrebbe riprodursi nel turismo, accentuando le differenze tra chi può sostenere i costi di una vacanza “infection-free”, protetta, garantita, sterilizzata, e chi no. «Saranno proprio le strutture di fascia alta, con maggiore forza finanziaria e spesso maggiori spazi ad aver qualche margine di manovra in più per inventarsi nuove formule di ospitalità», commenta Valentina Doorly. Per la quale «più che in vacanza nell’estate 2020 “andremo a nasconderci”, con tanto di saponetta tradizionale e portasapone». Cercheremo luoghi vicini, conosciuti. La rassicurazione, non l’avventura. Si rafforzerà quello che il sociologo francese Rodolphe Christin “in Turismo di massa e usura del mondo (Elèuthera 2019) definisce come lo spazio-isola «che protegge dal mondo esterno», «dove poter stare per i fatti propri, ripiegati su di sé, senza alcun contatto» con l’esterno. Una forma di cocooning, di chiusura nel proprio bozzolo. Socialmente puro.

Il turismo, spiega d’Eramo, non è altro che una strategia globale con cui il moderno ha fronteggiato ed è venuto a patti con l’irruzione dell’altro da sé, figlia della «globalizzazione precoce» dell’Ottocento. Si fonda sulla curiosità per l’altro da sé. Ma quando l’altro non è più fonte di piacere, di conoscenza, ma di contagio potenziale si rischia «una regressione neopuritana, il ritorno a un mondo da puritani asettici del Seicento bostoniano». Gli altri come minaccia alla propria integrità incontaminata. L’esterno minaccioso e sempre meno accessibile.

«Il turismo è dovuto a due rivoluzioni. Quella dei trasporti, che ha reso possibile i viaggi, e la rivoluzione sociale che ha reso possibile il viaggiatore: l’introduzione del tempo libero retribuito», spiega Marco d’Eramo. Oltre agli spostamenti, la pandemia compromette dunque la seconda condizione del turismo, ciò che Rodolphe Christin chiama «il sogno vacanziero della società salariale». Finita l’emergenza ci sarà più tempo libero, ma meno soldi. Altro che l’illusione di vivere di rendita per qualche settimana. E «la clientela verrà divisa per nuove categorie», aggiunge Valentina Doorly. I poveri a casa, quando ne hanno una. I più abbienti nelle destinazioni esclusive e protette. Per gli altri «una vacanza “PPP”: povera, piccola, di prossimità. E non affollata. Vince la montagna, la campagna, la collina. I luoghi famigliari, magari delle origini». Una scelta dettata dalla necessità ma anche da cambiamenti psicologici. La pandemia ha agito come una sorta di «ri-condizionamento comportamentale, mostrandoci come vivere a regimi di consumo straordinariamente più bassi. Ci basterà molto meno, in termini di spesa e di esperienza, per ricavare soddisfazione e piacere». Almeno «fino a che non ci saremo riabituati».

La questione cruciale sta qui. La pandemia sedimenterà nel nostro immaginario nuovi modi di concepire il viaggio, il turismo, il nostro rapporto con il mondo? Una volta venuti meno i limiti pandemici, torneremo a consultare il pianeta come «un immenso catalogo commerciale» per «gestire la geografia dei nostri divertimenti», per dirla con Rodolphe Christin? «È una crisi che non va sprecata, deve dare adito a un ripensamento dell’overtourism, che va gestito, spostato, incanalato e distribuito. E limitato», si dice convinta Valentina Doorly. Marco d’Eramo diffida degli annunci di palingenesi sociale. «Al contrario di Slavoj Žižek, non credo che il virus possa fare una rivoluzione», nota. Neanche nel turismo. «Senza il turismo non c’è industria aeronautica, automobilistica, edilizia. È un’economia intrinsecamente espansiva. Non si ferma».

I precedenti sembrano dargli ragione: nel 2002 la Sars ha causato un riduzione dello 0,4% degli spostamenti internazionali, la crisi finanziaria del 2008 una riduzione del 4%. Ma poi il settore è tornare a crescere. Come e più di prima. «La libertà di movimento fa parte della costituzione materiale della modernità. Chi è disposto a rinunciarvi?», chiede d’Eramo. È «il movimento incessante, il forsennato mobilismo, a darci l’impressione di poter consumare il mondo», scrive Rodolphe Christin. Il quale invita i lettori a respingere l’ingiunzione al movimento, la frenesia motoria, puntando alla «riterritorializzazione del tempo libero, alla densità relazione, ai luoghi di iniziativa popolare», con funzioni sociali e di convivialità. Per un turismo «del minimo impatto, della non-traccia».

Sembra di leggere Henry David Thoreau, che in “Io cammino da solo” , una raccolta dei suoi diari appena pubblicata da Piano B (traduzione di Mauro Maraschi), si chiede se abbiamo «davvero bisogno di andare così lontano per scoprire cose nuove». Un’opzione destinata a rimanere minoritaria, sostiene Marco d’Eramo. «Nel mondo siamo 7 miliardi e mezzo. Non si risolve tutto con il turismo di prossimità». Le condizioni materiali per ora sono cambiate, ma i desideri turistici, sostiene l’autore de “Il selfie del mondo”, rimangono intatti: “L’usage du mond”, l’uso del mondo, come recita il titolo originale del libro dello scrittore-viaggiatore svizzero Nicolas Bouvier, è destinato a farsi «usura del mondo». È l’esito della rivoluzione delle comunicazioni dell’Ottocento. È allora che «l’inebriante sensazione di aver il mondo a disposizione si fa pensabile, concepibile».

Ma il virus rende questa sensazione fragile, revocabile, per la prima volta. Impone una nuova consapevolezza: il mondo non è a nostra portata, né del tutto addomesticabile. E dimostra l’attualità di un “viaggiatore leggero” come Alexander Langer, ecologista politico e costruttore di ponti. Nel 1990, nella “Lettera a San Cristoforo”, Langer ricorda che «il motto dei moderni giochi olimpici» - citius, altius, fortius, più veloci, più alti, più forti - «è diventato legge suprema e universale di una civiltà in espansione illimitata». La pandemia ci obbliga a confrontarci con «il cuore della traversata che ci sta davanti: il passaggio da una civiltà del “di più” a una del “può bastare” o del “forse è già troppo”». Da citius, altius, fortius, a “lentius, profundius, suavius”.