Un fotografo dedica anni a incontrare i pazienti psichiatrici nelle loro case e negli istituti. Poi arriva il covid e la sua ricerca acquista un nuovo senso. Raccontato da un autore teatrale. «C’è chi vive con addosso due maschere chirurgiche e una da sub. E se gli parli mette le mani sempre davanti. Come a proteggersi, a confinarsi ancora di più» (Foto di Valerio Bispuri)
In un manuale per infermieri psichiatrici pubblicato un secolo fa il dottor Ceroni ci tiene a specificare che «un tempo gli alienati erano considerati come esseri colpevoli e pericolosi o come invasati dal demonio», dunque si chiudevano in «manicomi, che avevano assai più del carcere che dell’ospedale». Ora invece sono «degni di carità e suscettibili di miglioramento e di guarigione». Ma basta leggere poche righe più in basso e il nostro medico indica il parametro secondo il quale è pensata la divisione in reparti per «opportunità di cura e di servizio». I buoni propositi di facciata scompaiono. Dato per ovvio che i maschi e le femmine stanno in padiglioni diversi, si passa alle sezioni: tranquilli, agitati, semi-agitati, sudici, eccetera. Non si tiene in alcun conto la malattia. I pazienti devono essere gestiti, non curati. Perciò si ammucchiano per comportamento e l’istituto psichiatrico diventa un archivio per esseri umani. Infatti mezzo secolo dopo e con l’esperienza di 36 anni, l’infermiere Adriano Pallotta ricorda che «vedevamo un paziente che entrava in condizioni buone - perché spesso capitava, eh? - e poi regrediva in maniera totale, fino alla distruzione. Un fatto di quel genere non ci portava a riflettere. La riflessione a noi ci veniva, sapete quando? quando un paziente dopo dieci anni era rimasto integro. La persona che regrediva era la norma. Il manicomio creava il paziente a misura del manicomio».
Per entrare nelle immagini che raccontano le vite attraverso i corpi fotografati da Valerio Bispuri penso che si possa partire da qui. Da oltre due secoli, e forse di più, la comunità chiede alle istituzioni di gestire i corpi viventi ingestibili che ci vivono accanto. Abbiamo bisogno di disfarcene senza provare sensi di colpa. La scienza può aiutarci. Ci dice che avrà compassione e si occuperà dei poveri derelitti, ma poi li accantona come volumi di una vecchia enciclopedia in ordine alfabetico.
Poi arriva uno come Bispuri e se li va a cercare. Ci spiega il perché. «Volevo raccontare gli ultimi, i poveri, la gente che non c’è, che non esiste, gli invisibili. Oggi è la cosa più importante della mia vita. Una necessità assoluta, per cui il resto della realtà diventa un po’ secondario».
A 27 anni va in Sud America per 5 mesi come assistente alle riprese per un canale che si occupa di viaggi. È un’esperienza che lo mette in contatto con la povertà estrema. «È stato lo spartiacque. È quello che io chiamo il mio personale viaggio cheguevariano» dice.
[[ge:espressoimage:eol2:2168832:1.38532:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.38532.1379599652!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]]Si porta la macchina fotografica e torna a casa con una gamba rotta. Molla tutto e si prepara per andare a vivere in Argentina. Visita 74 prigioni e racconta i detenuti nelle viscere del sud America. Poi per 14 anni lavora sul Paco, la droga dei poveri nata con la crisi economica. E con questa storia conclude il secondo capitolo della sua trilogia sulla Libertà Perduta. Il terzo lo scrive con le immagini di 10 prigioni italiane. Tre anni di lavoro per raccontare «una solitudine sconfinata: i detenuti sono permanentemente a contatto tra di loro, eppure sono sempre soli, in qualsiasi momento della giornata». Ma anche questo lungo viaggio arriva al termine. Finisce «perché senti che hai detto tutto. Che non c’è più niente da dire. Però c’è anche una grande tristezza». E così scatta qualcosa nella sua testa. La curiosità e il bisogno «di andare a conoscere meglio l’Africa e volevo trovare una storia che mi interessasse». Conosce «padre Kizito. Nello slum di Kibera ha aperto un piccolo centro che si prende cura di bambini con malattie psichiatriche. Allora mi è venuto il click. Sono andato in Kenia e da lì è cominciato il mio lavoro. Ho scoperto che questa storia della malattia mentale mi aveva accompagnato per tutta la vita e poteva essere il quarto capitolo. Una libertà perduta mentale. Sono due anni che ci lavoro». [[ge:rep-locali:espresso:285344578]] Il lockdown gli ha dato il tempo e l’opportunità per fermarsi e ritornare alle foto scattate al Borda, «un manicomio un po’ particolare» di Buenos Aires. E ha pensato che si poteva raccontare cos’è il disagio mentale in Italia in questi giorni di isolamento.
«Ho avuto la fortuna di conoscere Giuseppe Ducci del Dsm che mi ha aperto tutte le porte. Sono stato nelle case famiglia anche se loro non amano più definirle così. Ci abitano pazienti che stanno facendo da tempo un trattamento abbastanza sociale. E poi sono stato nel reparto psichiatrico del San Filippo Neri e del Santo Spirito di Roma dove sono i casi più complessi e difficili». Racconta della «signora di 68 anni che ha una storia incredibile. Famiglia normale, borghese, andava all’università. Una mattina è uscita di casa ed è sparita per 17 anni. Tant’è vero che gli hanno fatto una specie di funerale. Per tutti era morta. L’hanno ritrovata in un appartamento a Ostia. I vicini sentivano cattivo odore. Era in uno stato completamente di abbandono. Lei adesso si è sposata con un signore che si prende cura di lei. Ha un viso, degli occhi così intensi, dolci» dice. «È quella con gli occhiali spessi che si abbraccia al marito» in una casa modesta che però è piena di segnali umani. Ogni oggetto ha avuto la sua piccola storia. Quanto è diversa una casa vera anche se dentro c’è una testa che soffre. E un quadro modesto, di quelli che vedresti riposto in una cantina, ma almeno sta riempiendo una parete per ricordare che c’è un essere umano che s’è preso cura di quel muro, che non l’ha lasciato disabitato come l’ha fatto il muratore. Un appendiabiti a fisarmonica inchiodato accanto alla porta. Il letto rifatto per bene anche se ci dorme dentro una donna che riposa inquieta, che combatte contro gli incubi. La radiosveglia sul comodino. «Il comodino è fondamentale. È una parte intima, sta vicino al letto» insiste Valerio. Zona di transito tra il sonno e la veglia, il sogno e la stanchezza, l’amore e la mancanza d’amore. E poi tutta la casa che non è un albergo e tantomeno un manicomio. In casa metti le tue cose, anche quelle che ti serviranno il prossimo anno quando ritorna l’inverno. Anche quelle che non ti serviranno mai più. I peluche di Elena, 48 anni, accanto al crocefisso in un pantheon della memoria personale. Argine al dolore che l’ha fatta andare fuori di testa trent’anni prima per la morte della madre.
Tra quelle mura c’è Filippo di 51 anni. Durante il servizio militare è successo qualche cosa per cui lui è tornato e ha cominciato a distruggere tutto. Gli hanno fatto il TSO e adesso si sta recuperando con molta difficoltà. Poi ci sono tanti «ragazzi come Simone. Il 35 per cento della malattia psichiatrica è dovuto a problemi col mondo della droga. Quello che mi è arrivato è una grande malinconia e una grande forza. È gente che ci sta provando». Indossa la maglia rossa e il cappellino, ma anche la maschera da sub e due mascherine. Una difesa continua come le mani che mette avanti Francesco. E dietro di lui le barriere proseguono. C’è di nuovo una finestra chiusa e altre facce dietro le mascherine. In tempi di lockdown i confini aumentano per tutti, soprattutto per chi era già confinato. Così mi viene in mente la frase di un barbone della stazione Termini. Quando un poliziotto gli ha detto che adesso, col contagio, deve tenersi sempre alla distanza di almeno un metro dalle altre persone, gli ha risposto «a me non mi s’avvicinavano manco prima». «Ero molto indeciso se farlo in bianco e nero o a colori questo lavoro. Il bianco e nero si concentra molto sulle persone, sugli sguardi, sui gesti. Ho scelto il colore perché mi sembrava interessante raccontare anche l’ambiente».
Come sarebbe stato il maglione di Antonietta in una foto senza il giallo, il verde e il rosso? E la cravatta coi rombi di Gennaro? Spunta da una porta e va ad abbracciare Giacomo, quello con la faccia magra e il giacchetto di jeans. Tecnicamente alcuni di loro vennero definiti «residui manicomiali». Sono i pazienti arrivati dal Santa Maria della Pietà, forse il grande manicomio d’Europa, 41 edifici su 130 ettari, sette chilometri di strade con una capacità di oltre mille posti letto. Dopo la legge 180 del ’78 con la razionalizzazione delle strutture di assistenza psichiatrica si prevedeva di smaltirli in una quindicina d’anni e chiudere per sempre i lager che erano stati costruiti con tanta perizia per toglierli di mezzo e condannarli a un ergastolo senza sconti. Il lavoro per recuperarli è stato lungo. Ogni storia aveva una complessità che non era facile far rientrare in qualche schema.
Antonietta per esempio è finita in manicomio perché i genitori non potevano occuparsi di lei. Le sue problematiche sono cresciute all’interno dell’istituto. Anche lei è entrata nella normalità folle della quale parla l’infermiere Pallotta cosicché è stato creato un altro “paziente a misura del manicomio”. Quando va bene ci vogliono anni per tirare fuori un matto dal manicomio e per far riemergere l’essere umano. E non è proprio questa umanità che cercano gli artisti? Fare una bella foto è «una maniera per aggirare l’ostacolo. Io ho bisogno di andare sempre più in profondità. Se tu fotografi un falegname devi raccontare quello che lui sente. Perché fa il falegname? Gliel’ha insegnato il padre? È stata una circostanza? È stato costretto dalla vita? Non devi raccontare che lui fa un mobile, ma capire perché lo fa».
Allora chiudo tornando all’inizio. Alle indicazioni del dott. Ceroni quando nel suo manuale stabilisce i confini entro i quali chiudere i pazienti declassandoli a oggetti da ordinare in un magazzino. In quel sottoscala della società ci entra il fotoreporter. Le anime si riguadagnano un’anatomia, i fantasmi silenziosi prendono la parola e si distinguono dalle ombre. Figure che mostrano scampoli di carne svestita, pezzi di facce coperte da una mascherina, la stessa che copre le nostre. Sorrisi sdentati dietro un vetro. Corpi ricurvi, sdraiati, scomposti. Impacciati. Nobilitati dalla sigaretta sempre accesa. Appesi alla cicca come a un salvagente per non farsi sommergere dalle tempeste del cervello.