
Quello che accade, spesso e volentieri però, è che siano chiamati a reggere gli ospedali universitari, con turni anche di 12 ore, senza garanzie contrattuali e con una formazione che in molti casi è quasi inesistente. E che poi, nel momento in cui scoppia una pandemia come il Covid-19, siano reclutati per tappare i buchi di un sistema sanitario depauperato negli ultimi anni. Un esercito di lavoratori ibridi chiamato a ricucire i tagli alla sanità con condizioni lavorative che rasentano lo sfruttamento e che, a seconda della convenienza, sono considerati professionisti oppure scolari.
“Il nostro inquadramento contrattuale prevede pochissime tutele: dovremmo rendere sulla carta 34 ore di attività pratica a cui si dovrebbero aggiungere 4 ore di attività teorica a settimana, ma in realtà tutti lavoriamo molto di più e non facciamo formazione”, spiega Irene Steinberg, Medico Specializzando in Anestesia a Torino e rappresentante di Chi si cura di te, associazione che ha l’obiettivo di dar voce e promuovere i diritti dei giovani professionisti della salute. La borsa che ricevono gli specializzandi non prevede straordinari, indennità per malattie, accesso convenzionato alle mense, possibilità di utilizzare i nidi aziendali. “Ci sono scuole di specialità in cui gli specializzandi devono scendere a mangiare sul marciapiede della propria struttura perché non hanno una sala dove stare”, denuncia Alessandro Frascati, presidente di MeSPad – Medici Specializzandi FederSpecializzandi Padova. Non sono previste indennità se si svolgono turni notturni e non vengono rispettate le normative europee in termini di giorni e ore di riposo fra un turno e l’altro. “Se io lavoro 60 ore perché altrimenti il reparto non va avanti, mi piacerebbe che mi riconoscessero almeno gli straordinari”, aggiunge Steinberg.
“Pretendiamo il diritto di formazione - è la richiesta di Frascati - “Noi dovremmo fare lezione, ma in molte sedi non accade. Non accade perché la pressione dell’attività assistenziale è talmente forte che non c’è abbastanza tempo. Se c’è un reparto che si trova in difficoltà dal punto di vista personale, lo specializzando viene strappato dal percorso formativo e mosso dove c’è più bisogno”. Fino al paradosso, in questa storia di paradossi, in cui alcune guardie di notte sono coperte solamente da specializzandi, senza la presenza di medici strutturati. Sono diverse le testimonianze di specializzandi padovani che raccontano di guardie notturne in cui si trovano a essere responsabili della gestione del reparto e di consulenze urgenti con il medico strutturato che non è fisicamente presente ed è reperibile soltanto a domicilio. “Lo specializzando come medico - sottolinea Frascati - da una parte non può esimersi dall’intervenire se ha di fronte un paziente in sofferenza e in pericolo, dall’altra essendo in formazione in teoria se si trova di fronte a qualcosa che esula dalle sue competenze dovrebbe fermarsi e non fare niente, chiamare uno strutturato e aspettare che arrivi da casa. C’è un evidente cortocircuito, che mette in pericolo il paziente”. Non solo, ma espone lo specializzando a rischi legali dovuti alla mancanza di tutele contrattuali. “Noi non vogliamo tagliare i tempi di specializzazione - precisa Steinberg - però nel momento in cui facciamo a tutti gli effetti mansioni da medici e ce ne assumiamo la responsabilità legale, vorremmo avere un inquadramento contrattuale che rispetti questo tipo di lavoro”.
Matteo Bonato è un medico specializzando di pneumologia dell’ospedale di Padova. A fine febbraio, quando è esplosa l’emergenza Covid, con il focolaio di Vo Euganeo a pochi chilometri, si è dato subito disponibile per dare una mano nel reparto di fisiopatologia respiratoria. “È stato parecchio stressante. Sia dal punto di vista fisico che psicologico - racconta -. Lavorare sempre con le tute e la mascherina è molto pesante fisicamente, fa caldo, fai fatica a muoverti, ti fan male gambe e collo. Hai paura di rimanere contagiato e di contagiare le altre persone con cui vieni a contatto. Io non vedo i miei amici e i miei familiari dal 21 di febbraio, mi sono posto in completo autoisolamento”. Per Matteo, come per tanti altri colleghi, uno dei più grandi dispiaceri è stato quello di non potersi relazionare normalmente con i pazienti: “Su 18 letti del reparto, ogni giorno un terzo veniva rimpiazzato: o andava meglio e veniva portato in medicina intensiva, oppure andava peggio e andava in rianimazione. Non si riusciva a instaurare un rapporto umano medico-paziente”. Il dpcm del 9 marzo ha fatto cadere le incompatibilità previste dal contratto di formazione specialistica, dando la possibilità di assumere gli specializzandi dell’ultimo e del penultimo anno per far fronte all’emergenza sanitaria. Sono così stati reclutati tramite cococo, senza vincoli di sede e di orario. Il paradosso, secondo Steinberg, è che “assumere gli specializzandi spostandoli di reparto ha causato un depauperamento negli ospedali centrali di una serie di persone che reggevano le strutture. Visto che non abbiamo un contratto lavorativo le aziende non ci considerano lavoratori, così nelle strutture universitarie c’è un numero di strutturati inferiori, proprio perché ci sono gli specializzandi. Nel momento in cui sono stati prelevati gli specializzandi hanno creato delle voragini, perché sono stati assunti nelle strutture circostanti. Per esempio al Pronto soccorso delle Molinette tutti gli specializzandi di anestesia sono stati assunti per l’emergenza in altre strutture, quindi li abbiamo rimpiazzati noi più giovani. Paradossalmente in una delle strutture centrali per l’emergenza mancava il personale. È stata una gestione rattoppata”.
Giulia Meneghini è una specializzanda in medicina d’urgenza a Padova che a febbraio lavorava nel reparto di rianimazione di Mestre. A metà marzo è stata richiamata al pronto soccorso padovano per lavorare nelle aree con i pazienti Covid. Quando è arrivata, le hanno messo a disposizione i necessari dispositivi di protezione individuale. Meno fortunato è stato il suo ragazzo, specializzando in geriatria, nel cui reparto, in una prima fase, non venivano nemmeno eseguiti i tamponi sui pazienti. “Nel suo reparto - è la testimonianza di Giulia - gli strutturati non visitano i pazienti: da quando c’è il coronavirus, impauriti dal contagio, hanno lasciato l’attività agli specializzandi. Al mio ragazzo non sono state fornite delle mascherine ffp2, ma solo mascherine chirurgiche. Così si è contagiato. Di 20 specializzandi, 4 sono risultati positivi. Dopo che lui è stato male, ci siamo isolati, però vivendo in un bilocale io dormivo nel divano - continua Giulia -. Appena abbiamo avuto il suo tampone, ed era positivo, l’ho fatto anche io e sono risultata positiva”. Formalmente la legge ha equiparato le infezioni da coronavirus negli operatori sanitari a malattie professionali, se avvenute in ambiente di lavoro. “Il mio ragazzo ha chiesto che venisse aperta la procedura Inail per il suo caso, ma gli hanno risposto che doveva telefonare al suo medico di base e farsi fare un certificato Inps. La sua non era insomma equiparata a una malattia sul luogo di lavoro”. Gli specializzandi hanno diritto a 40 giorni di malattia, superati i quali la borsa deve essere sospesa. “Se fossimo stati positivi più di 40 giorni come può accadere, non avremmo neanche percepito la borsa”, lamenta sconsolata Giulia. “Colleghi che hanno difficoltà di salute si trovano a dover interrompere il periodo di formazione”, conferma Irene Steinberg.
Per Giulia e tanti altri colleghi la goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le dichiarazioni di Daniele Donato, direttore sanitario dell’Azienda ospedaliera di Padova. “Gli specializzandi escono di casa e hanno una vita sociale molto attiva. Sono questi i soggetti che nel momento in cui si inseriscono nell’ospedale creano maggior pericolo”, ha sostenuto nel corso di un intervento web organizzato dalla Società italiana di chirurgia plastica in occasione del primo maggio. Frasi che hanno sollevato la protesta e convinto gli specializzandi di Padova a proclamare per il 4 maggio l’astensione dall’attività nei riguardi dei pazienti, salvo le emergenze e le aree Covid. “A seguito della mobilitazione e delle scuse della direzione sanitaria abbiamo avuto ricevuto una nota protocollata della direzione con i numeri reali” che smentiscono la tesi di Donato, spiega Frascati. “Siamo medici, non untori, chiediamo di lavorare in sicurezza e dignità”, aggiunge. Spesso questo non avviene e, in alcuni reparti, sono gli stessi specializzandi che hanno dovuto acquistare dei sovra-camici - le cosiddette tutine - obbligatori nel corso dell’emergenza Covid. “In pronto soccorso noi usiamo la tutina, che non c’è mai stata fornita e non c’è mai stato nemmeno concesso che ce la lavasse l’ospedale - commenta amareggiata Giovanna Cendon, specializzanda in pediatria - Quindi noi ce le siamo dovute comprare e a fine turno dobbiamo portarle con noi e lavarle nelle nostre lavatrici, con tutti i rischi che comporta”. Anche Giovanna, come Giulia, è risultata positiva al Covid-19.
Secondo i dati di fine 2019 della Federazione italiana dei medici e odontoiatri, i medici inattivi in Italia sono 25mila. Chi non ci riesce, è costretto a vagare in un limbo di contratti precari e prestazioni occasionali. Sono i cosiddetti camici grigi. Come Alessandra, medico dell’associazione Chi si cura di te. “Devo fare il prossimo concorso, che si dovrebbe tenere a luglio, anche se è difficile che si svolga vista la situazione epidemiologica - spiega - si stima che, ora che la laurea è stata resa abilitante, lo proveranno circa 25mila candida”. Con il decreto rilancio il governo ha stanziato altre 4.200 borse, portando il totale a poco più di 13mila. Un numero che Alessandra giudica insufficiente: “Da qui a 5 anni andranno in pensione il 60% dei medici specialisti ospedalieri e medici di base. Non ci sono i futuri specialisti che possano ad andare a colmare questo gap. Quota 100 ha poi aggravato il problema. Siamo ora arrivati di fatto a quasi 14mila borse. Non sono abbastanza, perché lasciare per strada oltre 13mila medici è un fallimento di tutto il sistema italiano. Il punto è che un medico senza specializzazione o senza certificazione di medicina generale non può fare niente, è precario senza alcun futuro davanti a sé”. Così, mentre il turn-over non avviene e la sanità si trova sempre più in affanno, un esercito di medici specializzandi vive senza tutele. Un paradosso, soprattuto ora che si è visto quanto sia importante un sistema sanitario che funzioni.