Da secoli i pastori attraversano gli Appennini con le loro greggi. Camminando su una rete di sterrati pieni di storia e di poesia. Ora anche l’Onu riconosce il loro ruolo: «Un modello di produzione ecologica e sostenibile»

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Partire, tornare, anno dopo anno, un millennio dopo l’altro, uomini e animali, la natura come una seconda pelle, accordandosi al canto inconfutabile delle stagioni. Da dicembre la transumanza è entrata nella lista dei patrimoni culturali immateriali Unesco dell’umanità. «Un esempio straordinario di approccio sostenibile per affrontare le sfide poste dalla rapida globalizzazione, che ha contribuito in modo significativo a modellare il paesaggio naturalistico» ha scritto l’organizzazione dell’Onu.

Un grande riconoscimento simbolico per questa migrazione climatica dei pastori, che si spostano dai pascoli di collina e di montagna verso la pianura sulle vie naturali dei tratturi, maestose strade erbose larghe anche 100 metri e lunghe più di 200 chilometri. Un viaggio di settimane, con pause nelle “stazioni di posta”, che conobbe la sua massima diffusione tra il XV e il XVII secolo. I pastori viaggiavano a piedi, in fila indiana, ognuno accanto al suo gregge. La notte dormivano all’addiaccio, al freddo e bersagli dei lupi, dopo aver cenato con pancotto, ricotta e vino. Guardiani e pecore, pecore e guardiani vivevano così da settembre a maggio vicino al mare e d’estate ad alta quota.

La transumanza continua a coinvolgere soprattutto l’arco appenninico centro-meridionale (Abruzzo, Molise, Alta Irpinia e Puglia) e, qua e là, l’area alpina. Il tratturo L’Aquila-Foggia, con i suoi 244 chilometri, era il più arduo, suggestivo e leggendario dei cosiddetti “regi tratturi”: da qui l’epiteto di Tratturo Magno. Occorrevano come minimo 14 giorni per percorrerlo - e 300 mila passi. Cronache da un tempo in cui la pastorizia costituiva un po’ il core business dell’Italia: il termine pecunia deriva da “pecus”, dalla pecora. La lana, esportata in tutto il mondo, era la merce che trainava l’economia, e ha mantenuto un forte appeal commerciale almeno fino all’inizio del Novecento.
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«I maschi iniziavano a fare la transumanza a 7 anni. Era anche un modo per togliere bocche da sfamare alle mogli. L’8 settembre e il 2 luglio si svolge ancora la processione della Madonna dei pastori, in concomitanza ideale con la partenza e il ritorno dei transumanti. I titoli di coda dell’estate, col paese che si svuotava e diventava una città delle donne, e l’avvento della bella stagione, con le feste per il loro rientro». A raccontarci della persistenza di questo rito tra il pagano e il religioso è Davide D’Angelo, 35 anni, due lauree in tasca. Il ragazzo è rimasto a lavorare a Castel del Monte, in provincia dell’Aquila, nemmeno cinquecento anime, considerata una delle “capitali della transumanza”. Qui vive uno dei pochi superstiti “castellani” (così sono chiamati gli abitanti locali) che la faceva alla vecchia maniera, consumando le suole delle scarpe: dal dopoguerra, infatti, si è passati a una forma ibrida (a piedi e in treno) e dagli anni Sessanta ha prevalso l’acquisto o il noleggio dei camion.

Donato Mucciante va per i 90 anni e racconta: «Ero bambino quando ho fatto il mio primo Tratturo Magno. I muli caricavano di tutto: i pali, l’occorrente per prepararsi da mangiare, le reti per i recinti delle pecore». Classe 1890, il poeta-pastore castellano Francesco Giuliani se ne è andato nel 1970. Quando transumava, Giuliani portava con sé la sua biblioteca itinerante di 400 libri e il ricordo della donna amata bloccata a casa. Nei suoi diari raccontò magistralmente la sua catabasi negli abissi della Grande Guerra. La cultura lo riscattò dalle tenebre, fu il suo ascensore psicologico e morale. È tutto incentrato sulla sua storia lo spettacolo musical-teatrale “La stanza del pastore”, interpretato e diretto da Edoardo Oliva del Teatro Immediato, su testo di Vincenzo Mambella. Poi si è fatta strada la pastorizia stanziale, con stalle e mangime industriale.

Ma la transumanza resiste. Restando a Castel del Monte, Alessandro Pelini, 45 anni, insieme alla moglie Marinella, gestisce da vent’anni un’azienda agricola di allevamento e trasformazione casearia. «I giovani di una volta erano costretti a questo mestiere. Noi no, l’abbiamo voluto, per riprendere e rilanciare la lezione dei nostri avi e parenti». La loro transumanza è detta “monticazione”: «Saliamo sulla piana di Campo Imperatore, fino allo stazzo. Si “montica” dalla metà di giugno e si ridiscende non oltre metà ottobre. Portiamo con noi le nostre 350 pecore. Marciamo col bastone, la sacca con acqua e pane e il cane dietro le pecore. Ci muove una passione non più separabile da una visione imprenditoriale».

Anche Rosetta Germano ha 45 anni, è allevatrice e possiede una piccola attività a Castel del Monte. «Tra amici ci ripetiamo spesso: “I vecchi non erano stupidi”. I nostri nonni e bisnonni avevano le loro ragioni fortissime». Lei l’ha vista con i suoi occhi la transumanza. «Andavo a Foggia con i miei genitori. Partivamo a ottobre e rincasavamo a fine maggio, con i nostri 850 animali belanti. Non da viandanti, ma con gli autotreni. La coazione a ripeterla si è interrotta solo nel nuovo millennio, intorno al 2002, quando dilagò la blue tongue, l’epidemia della febbre catarrale degli ovini...».

Nunzio Marcelli, 65 anni, barba candida da sciamano, è forse un predestinato. Oggi, senza allontanarsi dalla sua Anversa degli Abruzzi, nel cuore dei parchi, produce formaggi che hanno fatto il pieno di gratificazioni internazionali. David Rosenthal, il critico gastronomico del New York Times, ha definito la sua ricotta affumicata al ginepro «il miglior formaggio al mondo». A breve sarà primavera, e organizzerà la classica festa della tosatura. Nunzio si è laureato alla Sapienza di Roma in Economia nel 1979 proprio con una tesi sul recupero delle aree interne attraverso la pastorizia: suo correlatore di tesi, nientemeno che Federico Caffè, il grande economista keynesiano sparito nel 1987.

Subito dopo scelse di tornare nel suo paese d’origine, Anversa, un borgo abruzzese semi-spopolato puntando sulla transumanza «Ci ho sempre creduto, sin da quando negli anni ’70 ho fondato con un pugno di amici una cooperativa, affittato dei terreni e comprato le prime pecore. Che devono mangiare e stare al pascolo: perciò, quando l’erba in loco scarseggia, bisogna spostarsi. Non avrei mai potuto caricare le pecore su un camion, e non ne vedevo nemmeno il motivo, visto che camminando per arrivare sui pascoli d’altura, a 2000 metri, si scalano paesaggi meravigliosi».

Nunzio transuma a giugno e a luglio, a piedi e con il gregge: «Attraversiamo le Gole del Sagittario, che hanno incantato artisti come D’Annunzio ed Escher. Seguendo il corso del fiume, sfioriamo la cima del Monte Genziana. Sosta con vista mozzafiato sul Lago di Scanno: mettiamo un “cotturo” (caldaio) sul fuoco e cuciniamo tutti insieme. Si dorme dove capita, e all’alba ripartiamo per attraversare l’ultimo tratto che sale fino al Piano delle Cinque miglia, una distesa larga 111 metri: questo era il tratturo che da Celano arrivava a Foggia. Eccoci allo stazzo: ci si può rilassare, immersi nei suoni e nei colori di un mondo ancestrale, dove non ci sono telefonini né televisori». Lo contattano da mezzo pianeta «per condividere questo antico andare, che è rimasto inscritto nel dna dell’uomo dall’inizio del suo cammino sulla terra».
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Per lui, la transumanza, in cui «storici come Braudel avevano individuato un prezioso marcatore territoriale», incarna «la via della libertà, del legame tra luoghi, idee, persone e culture, un modo tipicamente umano di vivere, comunicare, fare economia e socialità». Un emblema di pace, che viene meno quando questi valori naufragano. «Penso alla Seconda guerra mondiale. Dagli anziani di queste terre ho ascoltato il racconto di quando, dopo l’8 settembre si ritrovarono in mezzo al fuoco e dovettero abbandonare il loro adorato gregge». I pastori come custodi e traghettatori di uno sviluppo ragionevole. Loro che hanno transumato, e cioè attraversato, secoli di storia e periodi più drammatici di quello che stiamo vivendo. Quando gli animali e la natura non facevano paura, tanto poi alla fine tornava sempre l’estate.