Liguria offshore, il governatore Toti e l'amico con i soldi in paradiso (fiscale)
Il miliardario Gabriele Volpi apre resort di lusso in Riviera. Con soldi che arrivano dalla Nigeria via Lussemburgo. E brinda ai nuovi affari con il presidente della Regione
VOLPI-TOTI-jpgBrindano al futuro il miliardario Gabriele Volpi e il presidente della Liguria, Giovanni Toti. Neppure un mese fa, ai primi di giugno, i giornali locali hanno raccontato della rimpatriata tra i due vecchi amici all’inaugurazione di un resort extralusso sulla spiaggia di Santa Margherita. Grande sfarzo e champagne a fiumi per rilanciare le ambizioni del ligure Volpi, 76 anni, che da tempo, tra grane e inciampi di vario tipo, ama presentarsi come un benefattore della sua terra d’origine, lasciata nei primi anni Ottanta per fare fortuna in Africa con il petrolio.
Toti invece, in vista delle elezioni del prossimo settembre, non si è lasciato sfuggire l’occasione di benedire un’iniziativa che in tempi di recessione promette di dar lavoro a una quarantina di persone già quest’estate. Il Beach Club inaugurato a giugno è solo un anello della catena di locali aperti, acquistati o rilanciati da Volpi nel nord Italia negli ultimi mesi, 15 in tutto, da Milano a Genova, Venezia, Bologna, Padova e Ferrara, sempre con l’insegna Ten. Meno noto invece è il percorso del denaro che ha finanziato questi investimenti sponsorizzati da Toti. Un percorso tortuoso, che parte dalla Nigeria, il paese africano dove Volpi ha messo radici. La seconda tappa è il paradiso fiscale del Lussemburgo.
Da qui si arriva infine ai conti bancari della Hi Food, la società milanese che possiede i ristoranti e gli stabilimenti balneari targati Volpi.
I registri pubblici del Granducato rivelano che ai primi di maggio la cassaforte del gruppo, la White Fairy holding, ha fatto il pieno di capitali, circa 9 milioni di euro. Chi ha pagato? Secondo i documenti ufficiali, le nuove azioni sono state sottoscritte il 6 maggio dalla Prime Property Development Services and Manager Company, con sede in Nigeria. Una ventina di giorni dopo, un’operazione analoga ha portato 2,7 milioni nelle casse a un altro indirizzo lussemburghese, quello della White Fairy Resort holding. Anche in questo caso l’investitore batte bandiera nigeriana: l’aumento di capitale risulta infatti finanziato dalla già citata Prime Property Development Services and Manager Company. È questa, quindi la società utilizzata da Volpi per rifornire di liquidità, via Lussemburgo, le sue attività italiane con il marchio Ten, che nei prossimi mesi dovranno affrontare la crisi del turismo innescata dalla pandemia.
L’itinerario offshore non è una novità per l’amico di Toti, che nel corso degli anni si è servito di un gran numero di schermi societari collocati nei più disparati indirizzi esotici: si va da Panama all’isola di Man fino alla Nuova Zelanda. Per i suoi affari finanziari Volpi si è affidato ai consigli dell’amico Gianpiero Fiorani, l’ex patron della Popolare di Lodi protagonista una quindicina di anni fa della stagione delle scalate bancarie e infine condannato a 3 anni e sei mesi di reclusione per falso in bilancio. Con la consulenza di Fiorani, tra il 2015 e il 2018 Volpi ha rastrellato in Borsa un pacchetto del 9 per cento circa della genovese Banca Carige intestandolo alla panamense Compania Financiera Lonestar. L’affare si è chiuso nel peggiori dei modi. L’istituto di credito, giunto a un passo dal crack, è stato salvato grazie a un intervento coordinato dal governo e l’investimento di Volpi, all’incirca un centinaio di milioni, è andato in fumo al pari di quello del suo alleato nell’operazione, il finanziere con base a Londra Raffaele Mincione, tornato alla ribalta delle cronache in questi giorni per il suo ruolo nello scandalo degli immobili del Vaticano.
La nuova scommessa di Volpi, adesso, è quella sui ristoranti e questa volta l’investimento parte direttamente dalla Nigeria, dove l’uomo d’affari ligure si è insediato ormai più di trent’anni fa, accumulando una fortuna con i servizi logistici per l’industria petrolifera. Una ricchezza che si misura in miliardi, recitano le biografie sapientemente alimentate dal diretto interessato. Tutto resta nel vago, però, visto che i bilanci del gruppo non sono mai stati resi pubblici. Per quanto è dato sapere, la holding panamense Orlean Invest controlla la nigeriana Intels a cui fanno capo le attività nella logistica con circa 2 miliardi di giro d’affari e 15 mila dipendenti. La chiave del successo sono i buoni rapporti con il governo del Paese africano, da cui dipendono le concessioni per la gestione di quattro porti e delle free zone extradoganali che da questi dipendono. Proprio su questo fronte decisivo, quello politico, si moltiplicano però i racconti che descrivono una situazione sempre più instabile e complicata da gestire per Volpi.
L’ultimo segnale in ordine di tempo arriva dalla Svizzera, per la precisione da Lugano, dove l’imprenditore italiano si è insediato anni fa con una succursale della nigeriana Orleans Invest Africa. Alla filiale svizzera è stata affidata la gestione amministrativa del gruppo, con «particolare riguardo alle relazioni con corrispondenti ed istituti finanziari internazionali», come si legge nelle carte societarie. Ebbene, secondo quanto L’Espresso ha potuto ricostruire sulla base di documenti processuali, la succursale luganese è finita in rotta di collisione con la giustizia elvetica. La controversia si è conclusa nei giorni scorsi con una sentenza del Tribunale amministrativo federale che ha definitivamente respinto un ricorso presentato dal gruppo Volpi. Al centro della contesa c’era una questione di tasse. Nel 2016, la succursale della Orleans aveva infatti negoziato con il Canton Ticino un trattamento fiscale su misura, un ruling, per dirla nel gergo degli addetti ai lavori. Da Berna però è arrivato uno stop. Il contenuto dell’accordo va trasmesso alla Nigeria come previsto dalle convenzioni di reciproca assistenza giudiziaria tra Stati. Questa in breve la posizione dei funzionari del governo centrale elvetico.
A stretto giro di posta è arrivata l’opposizione dei legali di Volpi. Nel ricorso si spiega che la Nigeria «potrebbe dare avvio (...) a procedure amministrative e/o giudiziarie contrarie agli standard previsti da uno Stato di diritto». A sostegno di questa affermazione viene anche riportato un brano del rapporto di Amnesty International sul Paese africano in cui si citano, tra l’altro, «esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, tortura e altri maltrattamenti di detenuti, in alcuni casi con esito letale». Un quadro a tinte fosche che appare piuttosto sorprendente, se si considera che a lamentare la mancanza delle tutele garantite da uno Stato di diritto è un imprenditore che proprio in Nigeria nell’arco degli ultimi tre decenni è riuscito a creare dal nulla un’azienda dal giro d’affari miliardario sopravvivendo a dittature militari e guerre civili a cui va aggiunta la corruzione endemica denunciata da numerosi osservatori internazionali.
I giudici di Berna non si sono lasciati impressionare. «La Nigeria ottempera agli standard internazionali in materia di confidenzialità delle informazioni fiscali», si legge nella sentenza pubblicata il 10 giugno con cui il Tribunale amministrativo federale ha rigettato il ricorso di Volpi. Il quale ha infine preferito fare un passo indietro. Secondo quanto risulta dal registro societario ticinese, a fine maggio dalla succursale di Lugano della Orleans Invest Africa è arrivata la comunicazione di chiusura dell’attività. Sullo stesso registro si legge però che «la cancellazione non può essere effettuata» perché manca «il consenso delle autorità fiscali federali e cantonali». È possibile che il via libera definitivo arrivi già nelle prossime settimane. Intanto però resta aperto un interrogativo. Per quale motivo Volpi si è opposto con tanta determinazione allo scambio di dati fiscali con la Nigeria, il Paese dove da decenni hanno sede gran parte delle sue attività? Chi conosce le vicende di quella parte dell’Africa spiega che l’imprenditore italiano deve fare i conti con un contesto politico in cui rischi e incognite si sono moltiplicati rispetto al passato. La svolta è arrivata con le elezioni politiche del febbraio 2019 che hanno visto la vittoria del presidente uscente Muhammadu Buhari nella sfida con il rivale Atiku Abubakar.
Quest’ultimo altri non è che il socio d’affari di Volpi, il suo fedele sodale da quasi un trentennio, proprietario di una quota del 16 per cento del gruppo Orlean. Partito come semplice funzionario doganale, Abubakar, classe 1946, è diventato rapidamente uno dei pezzi grossi della politica del Paese: vicepresidente tra il 1999 e il 2008, durante il doppio mandato presidenziale di Olusegun Obasanjo, e poi sempre al centro del complicato organigramma del potere locale. Dopo la sconfitta elettorale la sua posizione si è però indebolita e di conseguenza anche quella di Volpi. Già negli anni scorsi peraltro, con Buhari sulla poltrona di capo del governo, l’imprenditore italiano si era visto chiedere conto di un appalto pubblico del valore di decine di milioni all’anno. Adesso all’incertezza politica si aggiunge l’emergenza economica causata dal Coronavirus e dal crollo del prezzo del petrolio, che è di gran lunga la principale risorsa della Nigeria, un Paese di 200 milioni di abitanti che per oltre il 90 per cento vivono in uno stato definito di “povertà estrema”, con un reddito giornaliero inferiore ai 5,5 dollari. Per non parlare della guerriglia alimentata nelle zone musulmane del nord dai terroristi islamici di Boko Haram. Con quasi quarant’anni di affari offshore alle spalle, Volpi non è certo il tipo che si fa intimidire con facilità. Quando il gioco si fa duro, però, non è il caso di condividere i segreti fiscali svizzeri con un governo potenzialmente ostile come quello nigeriano. Meglio solcare i mari con il superyacht Boadicea. Oppure coltivare gli affari italiani con l’appoggio dell’amico Toti. Via Lussemburgo, tanto per cambiare.