Così il processo alla 'ndrangheta stragista vuole riscrivere un pezzo di storia d'Italia
Il ruolo della mafia calabrese nella stagione delle stragi, i legami con Cosa Nostra, la ricerca di referenti politici, il ruolo della nascente Forza Italia. Finalmente si ricostruiscono verità rimaste nascoste per troppo tempo
Sono memoria condivisa da Palermo a Milano. E per l’Italia intera sono una tragedia collettiva. Ma nella ricostruzione delle stragi di mafia che negli anni Novanta dalla Sicilia sono tracimate in continente con bombe e attentati manca un pezzo. A quel progetto eversivo ha partecipato anche la ‘ndrangheta. E con un ruolo da protagonista.
Per decenni è riuscita a nasconderlo, trasformando i tre attentati calabresi contro i carabinieri, con cui l’élite dei clan ha firmato quel patto, nella “bravata” di due picciotti in cerca di armi e gloria. Ma un processo ha smontato «un’inaccettabile mistificazione che dura da trent’anni». Parole del procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, che ha coordinato quell’inchiesta, diventata un processo di tre anni e 127 udienze. E che adesso si avvia alla conclusione
La ‘Ndrangheta stragista degli anni Novanta «Con le stragi per noi il tempo si è fermato in un eterno presente che diventerà altro solo quando la verità verrà ricostruita fino in fondo» dice il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. È stato lui, con l’iniziale collaborazione di Francesco Curcio, all’epoca in Dna, a cercare le tracce e stanare l’ombra dei clan calabresi dietro le bombe di via Palestro a Milano, agli Uffizi di Firenze, a San Giovanni a Roma. È stato lui a comprendere che i tre attentati mirati organizzati tra il dicembre ’93 e il gennaio ’94 nei pressi di Reggio Calabria contro i carabinieri, incluso quello costato la vita ai brigadieri Fava e Garofalo, sono uno dei tributi che la ‘Ndrangheta ha offerto a quella stagione di sangue e alle trattative a cui puntava. Ma soprattutto che anche cronologia e geografia delle stragi vanno aggiornate. Perché gli attentati calabresi sono l’omega di quella di quella scia di sangue, che sempre in Calabria ha avuto inizio.
La violenza mafiosa – spiega Lombardo - si trasforma in «un disegno eversivo peculiarmente terroristico» non nel marzo ’92, con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, ma nel giugno ’91, un paio di mesi prima dell’agguato costato la vita al giudice Nino Scopelliti, ammazzato nei pressi di Reggio Calabria il 9 agosto di quell’anno, mentre preparava l’accusa nel maxi-processo contro la Cupola palermitana in Cassazione.
Intuizioni trasformate in un’inchiesta che scrive un altro pezzo di storia d’Italia, arrivata indenne ad un processo giunto ormai alla requisitoria. Alla sbarra però non ci sono solo calabresi. Oltre a Rocco Santo Filippone, espressione limpida dello storico casato dei Piromalli di Gioia Tauro, per l’accusa delegato dalla ‘Ndrangheta tutta nella gestione delle stragi calabresi, imputato c’è anche il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano. Il killer di don Pino Puglisi, il capo-mandamento che ha ordinato le stragi del 92-93 e per questi ed altri reati ha collezionato ergastoli, ha avuto un ruolo anche in Calabria. E lui stesso – forse involontariamente, forse no – lo ha confermato. «Ha fornito un contributo dichiarativo enorme, liberamente reso su temi che lui stesso ha introdotto» spiega il procuratore.
L’insostituibile (e involontario) contributo di Graviano A Reggio Calabria, il boss di Brancaccio ha rotto un silenzio, interrotto solo da estemporanee proteste e dichiarazioni, che durava da decenni. E nel processo che per la prima volta racconta il ruolo della ‘Ndrangheta negli anni delle stragi, ci ha tenuto a sottolineare che c’erano anche pezzi di istituzioni, di poteri palesi ed occulti, di imprenditoria, di massoneria che in quella fase hanno avuto un ruolo.
Una conferma dell’ipotesi dell’accusa secondo cui «le mafie – spiega Lombardo - avevano capito che, modificandosi lo scenario a livello internazionale e nazionale, bisognava muoversi per tempo, individuando nuovi referenti politici». Un’esigenza condivisa con pezzi di istituzioni, di politica, di massoneria, di intelligence che all’ombra della cortina di ferro – sostiene la procura - avevano costruito il proprio potere come “antidoto” all’influenza del blocco sovietico e venuto giù il muro di Berlino hanno forzato la mano per mantenerlo. Dagli uomini di Gladio alla massoneria di Gelli, dai settori dei servizi impiegati nelle operazioni Stay Behind a chi per anni ne ha dettato le priorità strategiche, insieme alle mafie in quella partita giocavano in molti. Tutti – sostiene la procura di Reggio Calabria – con lo stesso scopo.
«Una strategia gattopardesca per mantenere gli equilibri di potere inalterato», spiega il procuratore, un’opera di ristrutturazione del potere che lo mantenesse identico a se stesso, in cui bombe, sangue e terrore indiscriminato era un mezzo e non un fine. «Una tattica servente ad una strategia più alta». Un modo per obbligare tutti a sedersi al tavolo, senza lasciar fuori nessuno. A cercare una soluzione condivisa, poi individuata – emerge dall’inchiesta – nel progetto politico di Forza Italia.
E tutto questo Graviano lo ha a modo suo confermato. A sorpresa, per la prima volta nella sua lunga storia di processi ha deciso di sottoporsi all’esame. Per quattro udienze ha parlato, lanciato messaggi, detto e non detto. Le sue non sono state certo dichiarazioni limpide e cristalline o una confessione. Ma il boss di Brancaccio si è incastrato con le sue stesse parole. Quelle delle chiacchierate intercettate in carcere con il camorrista Umberto Adinolfi che hanno svelato i rapporti diretti con Silvio Berlusconi, rivendicate come «unica cosa vera» in aula, e quelle dette in dibattimento.
I messaggi di Graviano decifrati dalla procura «Graviano – dice Lombardo – è un imputato che ha diritto di mentire, ma le sue dichiarazioni in aula trovano conferma nelle sue intercettazioni in carcere, fino a prova contraria da considerarsi genuine». Di fronte a Corte d’Assise, pm e avvocati, Graviano ha parlato da boss e giurando di essere vittima di un complotto, ha puntato il dito contro Berlusconi, accusandolo di avere beneficiato dei soldi della sua e di altre famiglie siciliane senza mai averli restituiti, ha confermato di aver avuto incontri regolari e riunioni con il padre padrone di Forza Italia, prodotto politico di cui – ha detto in modo chiaro il boss di Brancaccio – lui e i suoi erano stati informati prima dell’ufficiale “discesa in campo”. Affermazioni che il diretto interessato si è affrettato a smentire tramite i suoi legali, mentre in aula – udienza dopo udienza – Graviano alzava il tiro.
Senza mai arrivare a farle, ha promesso o minacciato rivelazioni sulla classe politica di quegli anni, quella che non voleva che le stragi si fermassero e quella che cercava contatti «con gli amici di Enna», lì dove si riuniva la Cupola, per capire cosa stesse succedendo e fermare quelle bombe. «E no, Berlusconi non era fra questi ultimi» ha detto il boss in aula.
E il banchetto coperto di faldoni, blocchi di appunti, pizzini dietro cui stava seduto, in video-collegamento dal carcere di Terni è diventato un pulpito per lanciare messaggi. A pezzi dell’intelligence con cui dice di non essere mai stato a contatto ma di cui può raccontare, a chi «ha fatto di tutto per farmi parlare». Ai carabinieri «che devono dire come sono andati i fatti». Ai misteriosi «imprenditori milanesi» che i clan siciliani avrebbero finanziato. A chi «ancora tiene nei cassetti le carte» che potrebbero dire molto sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino e su «chi ha preso l’agenda rossa di Paolo Borsellino».
Nelle intenzioni di Graviano, messaggi forse più diretti fuori dall’aula, che alla Corte e alle parti. Ma che hanno interlocutori precisi, espressione di mondi che secondo l’accusa erano coinvolti nella strategia eversiva di quegli anni. «Usciamo fuori da prudenze verbali – tuona il procuratore - In questo Paese si sono mosse tutta una serie di forze che a fianco delle mafie sono diventate forze mafiose. Quello che è successo in Italia, non è contatto, ma compenetrazione fra mondi che hanno obiettivi comuni. Ma – aggiunge – non bisogna fare l’errore di considerare tutto mafia. È sbagliato dire che il contatto con le mafie ha trasformato apparati istituzionali, la politica, in forze mafiose. Pezzi singoli sono diventati mafiosi. Noi non siamo la nazione che agevola la mafia. Noi abbiamo un grande problema che sono le mafie e il nostro compito è stanare tutte le componenti mafiose».
Tutte le strade portano a Forza Italia Anche per questo gli investigatori di Squadra Mobile e Servizio centrale antiterrorismo, per ordine della procura, hanno cercato riscontri alle sibilline indicazioni che Graviano ha dato. E sono stati trovati. Altri sono arrivati dal dibattimento. Si è scoperto e c’è la prova, che tutti gli attentati, omicidi, bombe di quella stagione sono stati firmati come Falange Armata, sigla – dicono collaboratori calabresi e siciliani – indicata da ambienti dei servizi.
Che alcuni degli obiettivi di quella stagione sono stati indicati da chi delle mafie non era parte o comunque non solo. Che il Goi, la più grande obbedienza massonica dell’epoca – lo ha detto chiaramente – il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo – era irrimediabilmente controllato dalle mafie, che – ha specificato il pentito Cosimo Virgiglio – hanno sempre usato le logge per entrare in contatto con ambienti diversi, insieme a cui sviluppare comuni progetti, dal riciclaggio al controllo elettorale.
Sono saltati fuori tabulati, intercettazioni e testimonianze che negli anni delle stragi collocano il boss di Brancaccio in Sardegna, nei pressi della villa di Berlusconi, o al bar Doney, in via Veneto, dove Spatuzza e Graviano si incontravano per progettare il fallito attentato all’Olimpico, a pochi passi dall’albergo in cui, esattamente negli stessi giorni, Forza Italia ultimava la “discesa in campo” ufficiale di Berlusconi e Marcello Dell’Utri – dicono recentissime testimonianze raccolte – «incontrava calabresi e siciliani interessati al nuovo progetto politico».
Rileggendo e attualizzando vecchie carte, si è scoperto che negli stessi anni in cui le famiglie siciliane inviavano miliardi poi serviti per «investimenti immobiliari, le televisioni, tutto» ha detto in aula il boss di Brancaccio, in Calabria Angelo Sorrenti «un imprenditore dei Piromalli» veniva portato alla corte di Publitalia e scelto come referente calabrese per la costruzione di Fininvest. Piste – ed anche questo è emerso in modo chiaro– già apparse in passato e inspiegabilmente ignorate. Per l’accusa, una conferma che è su Forza Italia che ha trovato la quadra quella stagione di sangue e trattative, di bombe e abboccamenti, di tentativi, sperimentazioni, di cui sono state protagoniste le mafie tutte, ma non solo.
«Il concetto di tempo – afferma il procuratore Lombardo - è uno degli interrogativi che l’uomo porta con sé da sempre: la percezione del tempo è soggettiva o oggettiva? E come si misura? L’unità di misura internazionale del tempo è il secondo. Ragionando in secondi, dal primo febbraio del 1994 che è l’ultimo episodio su cui ci troviamo ad occuparci in questa sede, abbiamo aspettando la verità da 819milioni933mila secondi». Ed è necessaria e urgente una ricostruzione complessa che vada oltre «le verità sottobanco, il compromesso, le scorciatoie, il silenzio e la paura».
E la verità sulle stragi, «abbiamo il dovere di chiederla come cittadini, abbiamo il dovere di cercarla come magistrati del pubblico ministero, avete il compito di affermarla voi giudici. Costi quel che costi, perché altrimenti quelle stragi non saranno mai passato. Oggi viviamo un eterno presente da cui dipende il nostro domani».