I medici si somo trovati davanti a una scelta tragica, ma non inedita. Cosa fare per evitare che si ripeta
Nel giugno del 1968, la nazionale italiana di calcio supera la semifinale dei campionati europei contro l’Unione Sovietica grazie al sorteggio. Finiti in parità anche i tempi supplementari, il capitano Giacinto Facchetti sceglie “testa”, e gli azzurri passano alla finale che vinceranno contro la Jugoslavia. Dopo un paio d’anni il sorteggio verrà definitivamente abolito in tutte le competizioni internazionali perché percepito come iniquo. Ma il ricorso alla sorte e al gioco del caso non scomparirà dalle nostre vite; e il sorteggio, l’estrazione del numero fortunato o di quello sfortunato, continuerà a svolgere un ruolo significativo nelle vicende umane. Talvolta un ruolo tragico.
Si è appreso nelle scorse settimane, da una ricerca della rivista statunitense The Annals of Internal Medicine, che in alcune strutture ospedaliere americane, a causa della carenza di ventilatori polmonari, una volta esauriti tutti gli altri criteri di selezione tra i pazienti, si affida al caso la scelta di chi intubare. Per altro, una simile circostanza era stata anticipata in un articolo dell’Economist del 4 aprile scorso: «Immaginate di avere due pazienti in condizioni critiche ma soltanto un ventilatore a disposizione. Questa è la scelta di fronte a cui si potrebbe trovare il personale sanitario a New York, Parigi e Londra nelle prossime settimane. (...) I medici devono scegliere chi sarà curato e chi non potrà esserlo: chi forse riuscirà a vivere e chi probabilmente morirà».
La sollecitazione del settimanale inglese non ha dato vita a un dibattito adeguato alla drammaticità del tema e alla sua urgenza. Tanto meno in Italia, dove tuttavia ha suscitato un piccolo scandalo la pubblicazione delle linee guida - intelligenti e necessariamente dolorose - della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti). Oltre a questo, alcuni documenti del Comitato Nazionale di Bioetica e la costante e preziosa riflessione dell’Associazione Luca Coscioni. La scarsa eco ottenuta dall’interrogativo posto dall’Economist può essere spiegata con l’ostinata tendenza alla rimozione, indotta dal persistere, nonostante tutto, del tabù della morte nelle società occidentali. Certo, della morte si parla, su essa si fa filosofia e sociologia, si creano economie e consumi, ma sempre al riparo di un filtro che garantisce un’opportuna distanza dalla materialità sgradevole, tavolta indecente, di quell’evento. Si rimuovono il dolore lancinante che di frequente l’accompagna, la decadenza fisica e spirituale che può comportare, lo smarrimento cognitivo che spesso determina e tutte le scelte ultime che possono imporsi: far sopravvivere il corpo oltre il suo declinare? Mantenere una vita artificiale pur che sia? E, appunto, favorire un paziente a scapito di un altro, quando la carenza di dispositivi sanitari lo esige?
Oggi, siamo tutti più esposti alla patologia e al suo esito estremo, ma è forte la tentazione di sottrarsi al quesito ineludibile imposto da quella aritmetica elementare: due pazienti un ventilatore. E, invece, bisogna ripartire proprio da quella circostanza estrema dove prestare aiuto al primo individuo vuole dire non prestare aiuto al secondo individuo. Il grande intellettuale novantenne Jürgen Habermas non si tira indietro e afferma che se il numero di pazienti ricoverati è superiore a quello dei dispositivi di terapia intensiva disponibili, «i medici dovranno inevitabilmente prendere una decisione tragica, perché in ogni caso immorale».
Questo sembra il ragionamento di Habermas: la soppressione di una vita umana, e anche il solo fatto di non impedirla a causa di limiti “oggettivi” (non dipendenti dal soggetto) rappresenta una violazione di una legge morale assoluta. Ma l’uomo non è dotato solo di coscienza, dispone anche di responsabilità e libertà. Consapevole di operare in una dimensione “immorale”, perché segnata dalla scarsità, dove comunque un’ingiustizia verrà commessa, l’individuo maturo si assume la responsabilità di una scelta ardua, sostenuta dalla condizione di libertà di cui può godere. Il sapere di commettere (o di non impedire) una ingiustizia non è una ragione sufficiente per non operare e per sottrarsi alla necessità di quella scelta tragica. Di conseguenza, il soggetto è in grado di agire, correndo il rischio dell’errore e dell’iniquità, sulla scorta di linee guida e di criteri di riferimento che, per quanto parziali, ne potranno orientare e sostenere le scelte. Quanto il ragionamento possa precipitare nella quotidianità e nella fatica dell’esperienza direttamente vissuta, lo si coglie nell’intervista rilasciata a Linkiesta.it il 27 marzo scorso da Mario Riccio, primario del reparto di rianimazione dell’ospedale di Casalmaggiore: «le risorse per tutti non ci sono, pertanto noi anestesisti e rianimatori siamo chiamati a decidere a chi dare una chance di sopravvivenza, intubando il paziente, e a chi no. Non possiamo essere sicuri che il paziente intubato sopravviverà, ma dobbiamo comunque scegliere».
La situazione creata dalla pandemia, d’altra parte, è meno eccezionale di quanto si creda: «ero su un’ambulanza del 118» - è ancora Riccio che parla (La Repubblica, 8 Aprile 2020) - «e mi trovai sulla scena di uno scontro fra due pulmini con venti persone sull’asfalto e l’impossibilità di assistere tutti contemporaneamente. Anche lì, non c’era tempo di provare a rianimare tutti per mezz’ora, come prescrivono le regole. Dovevamo capire in tre minuti chi ce l’avrebbe fatta e chi no». Dunque, nella drammaticità della situazione concreta, si fa una scelta. E - sembra di capire - essa è determinata, oltre che da raccomandazioni professionali e da parametri medici, da fattori soggettivi, comunque discrezionali, che rimandano all’esperienza di vita maturata da ciascuno, ai suoi sentimenti e orientamenti.
Per la verità, nel ricorrere a criteri scientifici, la tendenza prevalente opta per una combinazione tra chance di successo della terapia e aspettativa di durata dell’esistenza del paziente. Come si vede si tratta di criteri razionali che, tuttavia, finiscono con lo stilare una “classifica” comunque opinabile, in quanto basata sul presupposto che una vita lunga “valga” più di una vita breve; o che una vita breve ma sana “valga” più di una lunga e afflitta da patologie. Nulla da eccepire sul piano della ragionevolezza, ma si tratta di una soluzione che comunque resta parziale e discrezionale. L’alternativa non sembra in alcun modo più rassicurante.
La ricerca prima citata, condotta su 67 strutture ospedaliere statunitensi, rivela che i criteri adottati nella selezione dei pazienti sono, in ordine decrescente: chance di sopravvivenza, età, attività svolta quando essenziale o utile agli altri (medici e operatori sanitari), ordine di arrivo al pronto soccorso e infine, esauriti i criteri precedenti, la casualità del sorteggio. In realtà, quella del triage, è una situazione sempre ricorrente nella pratica medica, ma che solo da alcuni decenni è diventata visibile e viene analizzata e classificata come una questione di interesse collettivo. Quasi che, solo oggi, le opinioni pubbliche, le categorie professionali coinvolte, i filosofi, i giuristi e i sociologi ne prendessero coscienza.
Per un verso, lo sviluppo delle biotecnologie, e, per l’altro, la diffusione del dibattito sul fine vita, hanno prodotto un vasto interesse per problematiche che sono diventate materia dolente della vita sociale, non solo in tempi di pandemia.
Da tutto ciò derivano due conseguenze. La prima richiama l’urgenza di una politica sanitaria previdente e lungimirante, capace di garantire che, in presenza di due pazienti da ricoverare in terapia intensiva, vi siano due ventilatori polmonari. È, va da sé, un obiettivo ambizioso e, forse, non raggiungibile. Ma è la sola prospettiva che risponda, al contempo, a criteri medici e a criteri etici.
La seconda conseguenza è che la consapevolezza di quanto quel programma di politica sanitaria sia ancora tutto da realizzare, deve indurci a dismettere qualsiasi velleità di onnipotenza e qualsiasi pretesa di auto-immunità. Dobbiamo riconoscere, cioè, tutti i limiti della nostra condizione umana e la sua irreparabile finitezza. «Sappiamo che il triage - ha scritto Maurizio Mori, docente di Filosofia morale a Torino - è realtà terribile, ripugnante e che tutti vorremmo evitare. Ma compito dell’etica e della bioetica è affrontare anche tali problemi difficili e individuare le possibili soluzioni razionalmente giustificate». Ad aiutarci può essere la consapevolezza della condivisione di uno stato di vulnerabilità, più che la competizione di mercato tra vaccinati e non vaccinati, tra immunizzati e contagiati, tra medicalizzati ed esclusi dalla protezione sanitaria.