Fine vita

A un anno dal primo suicidio assistito legale in Italia, tutto resta ancora immobile

di Simone Alliva   16 giugno 2023

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Federico Carboni moriva il 16 giugno del 2022 fa dopo una lungaggine burocratica che ancora oggi costringe numerosi italiani a migrazioni e sofferenze. Marco Cappato e Filomena Gallo (Ass.Luca Coscioni): “Aperto un varco, nonostante l’ostilità del Governo e di molte Regioni”

È passato un anno da quel 16 giugno 2022 dalla morte del primo italiano che, avendolo scelto, è stato in grado di porre fine alla propria esistenza senza che questo venisse considerato un reato. 

Federico Carboni, un uomo di 44 anni, tetraplegico da 12 anni dopo un incidente stradale, un anno fa moriva nella sua casa di Senigallia, dopo essersi auto somministrato il farmaco letale attraverso un macchinario apposito.

Era stato “Mario”, per la cronaca, per un breve periodo, poi la decisione di rivelare il suo nome e dare un volto a una battaglia che a partire dalle vicende di Eluana Englaro e dj Fabo racconta da tempo le difficoltà di avviare il diritto di andarsene nel nostro paese. 

Federico è stato il primo italiano ad aver chiesto e ottenuto l’accesso al suicidio medicalmente assistito, reso legale dalla sentenza della Corte costituzionale 242/2019 sul caso Cappato-Antoniani.

 

Il via libero definitivo per l’accesso al suicidio assistito era arrivato il 9 febbraio 2022, con il parere sul farmaco e sulle modalità “di esecuzione”, dopo quasi due anni dalla prima richiesta alla ASUR e dopo una lunga battaglia legale, in cui è stato assistito dall’Associazione Luca Coscioni. Federico, infatti, aveva inizialmente chiesto aiuto a Marco Cappato per poter ricorrere al suicidio medicalmente assistito in Svizzera. Una volta saputo che avrebbe potuto procedere in Italia, grazie alla sentenza della Corte, aveva deciso di presentare richiesta nel suo Paese, per poter rimanere fino alla fine vicino ai suoi cari, nella sua casa.

Ci sono voluti due anni per poter vedere riconosciuto questo suo diritto, 24 mesi che hanno costretto Federico a governare la propria sofferenza fisica e psichica, prima che lo Stato dicesse: sì, può andare. 

 

«La determinazione di Federico, anche grazie al coraggio del medico Mario Riccio, ha aperto un varco nel muro di gomma alzato dal Sistema sanitario per boicottare la sentenza “Cappato” della Corte costituzionale. Nonostante l’ostilità del Governo e di molte Regioni, la lotta di Federico continua grazie alla sete di libertà di altre persone malate, che non abbandoneremo», hanno dichiarato Marco Cappato e Filomena Gallo, rispettivamente tesoriere e segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni.

A commentare questo anniversario anche Mario Riccio, il medico che ha controllato la procedura: «Ha voluto- nel solco tracciato da Piergiorgio Welby- rendere pubblico il suo difficile percorso di autodeterminazione della sua vita. È stato per me ancora una volta un onore ed un privilegio conoscere ed aiutare una persona come lui. Un percorso complesso e faticoso giuridicamente e tecnicamente ma che lascia una grande eredità umana a tutti coloro che gli sono stati vicino». 

 

 

Le tappe di un diritto ancora negato in Italia
Nel nostro Paese proprio grazie alla disobbedienza civile di Cappato per l’aiuto fornito a Fabiano Antoniani, e quindi grazie alla sentenza 242/19 della Corte costituzionale, l’“aiuto al suicidio” è possibile legalmente quando la persona malata che ne fa richiesta è affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli ed è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Tali condizioni e le modalità devono essere state verificate dal SSN con parere del comitato etico, come accaduto nel caso di Federico Carboni, il quale ha potuto accedere al “suicidio assistito” senza che l’aiuto fornito configurasse reato.

 

Nonostante la sentenza della Corte abbia valore di legge, però, il Servizio Sanitario regionale non garantisce tempi certi per effettuare le verifiche e rispondere alle persone malate che chiedono di porre fine alla propria vita. Così rimangono in attesa di ASL e Comitati Etici territoriali che, per svolgere le loro funzioni di verifica delle condizioni, possono impiegare mesi. Un tempo che molte persone che non hanno e per questo sono costrette ad avviare azioni legali. A testimoniarlo storie come quella di Laura Santi, 48 anni, affetta da una forma progressiva di sclerosi multipla, in attesa di una risposta da oltre 400 giorni. 

 

L’Associazione Luca Coscioni ha avviato la campagna “Liberi Subito” per presentare proposte di legge regionali che garantiscano il percorso di richiesta di “suicidio” medicalmente assistito e i controlli necessari in tempi certi, adeguati e definiti. Le firme necessarie per portare la proposta in Consiglio regionale sono state raggiunte in Veneto, Emilia Romagna, Abruzzo e Piemonte. La raccolta è ancora in corso in Friuli Venezia Giulia. Analoga proposta verrà depositata in Basilicata e Lazio attraverso l’iniziativa dei Comuni ed è già stata depositata da consiglieri regionali in Sardegna, Puglia e Marche.

Un tempo sospeso tra migrazioni e sofferenze
Federico Carboni al momento, secondo i dati in possesso in possesso dell’associazione Luca Coscioni, è l’unica persona in Italia ad aver fatto ricorso alla morte volontaria assistita, dopo un calvario giudiziario di oltre due anni tra denunce e processi a carico dell’azienda sanitaria locale, che secondo la sentenza della Corte Costituzionale “Cappato/Antoniani”, con valore di legge, avrebbe dovuto garantirgli l’iter per l’accesso alla tecnica.

Anche altri tre italiani, Stefano Gheller, Antonio e Gloria hanno ottenuto il via libera dal Comitato Etico della regione di appartenenza (ultimo step prima del “semaforo verde”) e sono dunque ora liberi di scegliere il momento più opportuno per confermare le proprie volontà o eventualmente modificare le proprie intenzioni iniziali.

 

Ma sono numerosi gli italiani costretti a emigrare in Svizzera. Tra quelli assistiti da Marco Cappato e i “disobbedienti civili” iscritti a Soccorso Civile. Altri, come Federico Carboni, son finiti intrappolati nelle sabbie mobili delle lungaggini burocratiche e vittime di quelli che l’Associazione Coscioni definisce “reato di tortura” da parte dello Stato e costretti a un interminabile percorso nei tribunali contemporaneo e direttamente proporzionale a un peggioramento delle condizioni di salute.

Infine vi sono casi come Fabio Ridolfi e Giampaolo costretti a rinunciare al lungo e faticoso percorso scegliendo loro malgrado il ricorso alla sospensione delle terapie e una lenta morte sotto sedazione profonda con distacco dell’alimentazione e dell’idratazione, un epilogo che non avrebbero desiderato.