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Attualità
luglio, 2020

Gioia Tauro, luglio 1970: storia di una strage fascio-mafiosa

Moti di Reggio Calabria, disordini per la decisione del governo di spostare il capoluogo di regione
Moti di Reggio Calabria, disordini per la decisione del governo di spostare il capoluogo di regione

Sei morti, decine di feriti e un depistaggio durato decenni. La Freccia del Sud, mezzo secolo fa, segna l'inizio degli attentati ai treni durante la strategia della tensione

Moti di Reggio Calabria, disordini per la decisione del governo di spostare il capoluogo di regione
Il  22 luglio 1970, dieci minuti dopo le cinque del pomeriggio, la Freccia del Sud partita da Palermo e diretta a Torino si avvicina alla stazione ferroviaria di Gioia Tauro. Il convoglio, formato da diciotto carrozze più un vagone destinato a bagagliaio, decelera nella zona degli scambi di entrata a una velocità poco sotto i 100 km/h.
A qualche centinaio di metri di distanza il capostazione Isidoro Mazzù sente «un boato tremendo» e si dirige verso la zona da dove proviene il rumore. «Una colonna di fumo», dichiara il ferroviere, «si è subito innalzata alta dal convoglio deragliato. Una scena apocalittica. Il caos più completo. I passeggeri si buttavano giù dalle vetture, cercavano spasmodicamente di afferrare i loro cari, avevano il viso annerito dal fumo e le carni straziate dalle lamiere».

Il resoconto finale è di sei morti, circa 150 feriti dei quali un terzo gravi. Le vittime, di età fra 22 e 68 anni, sono Andrea Gangemi di Palermo, Adriana Vassallo di Agrigento, Rosa Fazzari di Catania, Rita Cacicia di Bagheria, Letizia Palumbo e Nicolina Mazzocchio di Casteltermini. Cinque dei sei morti erano pellegrini in viaggio verso il santuario di Nostra Signora di Lourdes in Francia.
Nella lista di orrori chiamata strategia della tensione l’attentato al Palermo-Torino è la prima fra le stragi ferroviarie che l’eversione nera ha perpetrato con la copertura degli apparati statali, impegnati nel conflitto a bassa intensità della guerra fredda.

L’Italicus, la stazione di Bologna, il rapido 904 hanno avuto attenzione mediatica nazionale, processi di grande risonanza e non sono mai stati trattati come incidenti. La Freccia del Sud è un caso perso nel cono d’ombra dei Moti di Reggio Calabria, dove sono maturate ideazione e realizzazione dell’attentato del 22 luglio. Cinquant’anni fa a Gioia Tauro iniziò un depistaggio che ha permesso a esecutori e mandanti di passare indenni da ogni forma di processo. E anche questo record agghiacciante è un motivo in più per tornare su quella vicenda.
Quel mercoledì di fine luglio l’estate calabrese ha già virato verso un’atmosfera tutt’altro che vacanziera. Il 14 luglio a Reggio sono iniziati gli scontri fra le forze dell’ordine e i manifestanti che protestano contro l’assegnazione del capoluogo di regione a Catanzaro, a valle delle prime elezioni regionali tenute in tutta Italia il 7 giugno per applicare, dopo quasi un quarto di secolo, il titolo quinto della Costituzione sulle autonomie locali.
La protesta popolare è repressa fin dall’inizio in modo pesante e già il 15 luglio c’è il primo morto, il ferroviere Bruno Labate, iscritto alla Cgil, probabilmente investito da una camionetta della polizia. In appena ventiquattr’ore la rivolta assume il colore che la dominerà, il nero. I dimostranti, che adottano il motto “Boia chi molla” del parlamentare missino Roberto Mieville, assaltano in sequenza la sede del Psi, la federazione del Pci e la Camera del lavoro (17 luglio).

Reggio, che non è una città fascista e che non ha eletto nemmeno un rappresentante del Msi al consiglio regionale, ha una caratteristica unica in Italia. È il laboratorio dove si selezionano le truppe di élite dell’eversione di destra. Nell’aprile 1968 fra i cinquanta giovani camerati spediti in stage di addestramento nella Grecia della dittatura militare ben nove vengono da Reggio.

Grazie all’ospitalità mafiosa, sullo Stretto sono di casa Franco Freda, Stefano Delle Chiaie e il principe nero Junio Valerio Borghese, ex comandante della X Mas e capo del Fronte nazionale che sta preparando il colpo di Stato della notte dell’Immacolata, da lì a cinque mesi. In altre parole, la destra che ha mutuato il metodo leninista dell’avanguardia rivoluzionaria alla guida delle masse sceglie Reggio per la prova generale di abbattimento della democrazia.

Ai margini della città fioriscono clan di cui al tempo si disconosce l’esistenza. La ’ndrangheta, parola ignota per qualcosa che deve restare sommerso, si schiera a fianco dei neofascisti e organizza a Gioia Tauro il bis di piazza Fontana (12 dicembre 1969).

I manovali del terrore piazzano l’ordigno appena dopo il transito di un treno locale e di un altro direttissimo, il Peloritano, che passano indenni pochi minuti prima della Freccia del Sud. Basta questa circostanza, malgrado la testimonianza del capostazione che parla di boato cioè di un rumore compatibile con un’esplosione piuttosto che con lo stridere delle carrozze sbandate fuori dai binari per centinaia di metri, a convincere gli inquirenti che si è trattato di un incidente.

«Per carità non diffamiamo la Calabria», dichiara preventivamente il questore Emilio Santillo che diventerà il capo dell’antiterrorismo con Francesco Cossiga al Viminale e si occuperà, fra gli altri, del caso Moro.
Sulla stessa linea si schiera il sottosegretario ai Trasporti Nello Vincelli, ras democristiano di Reggio che ha appena fatto eleggere in Regione il suo segretario, Lodovico Ligato, futuro numero uno delle Fs ucciso nell’agosto 1989 in un agguato di cui si conoscono gli esecutori ma non i mandanti.
A fine ottobre 1969, ancora da cronista della Gazzetta del Sud, Ligato aveva tuonato contro i “capelloni” che partecipavano al processo contro gli anarchici reggini Gianni Aricò e Angelo Casile. Fra i capelloni era presente anche Pietro Valpreda che da lì a quarantacinque giorni sarebbe diventato il mostro di piazza Fontana.
Ma a luglio 1970 gli anarchici hanno perso parecchi punti come capri espiatori ideali, nonostante le infiltrazioni di “stagisti greci” come l’agente provocatore Mario Merlino. A giugno è uscito per i tipi di Samonà e Savelli il libro “La strage di Stato”. Il giudice che indaga su piazza Fontana, Vittorio Occorsio, ucciso nel 1976 dal killer neofascista Pierluigi Concutelli, punta sui neri e interroga gli anarchici reggini. Casile dichiara di avere visto a Roma il 12 dicembre 1969 l’esponente reggino del Fronte nazionale Giuseppe Schirinzi e lo accusa di avere messo le bombe all’Altare della Patria.

Intanto a Gioia Tauro sul banco degli imputati finiscono i ferrovieri calabresi che pochi giorni prima hanno svolto lavori di manutenzione nella zona del disastro.

Solo il cronista del Corriere della sera Mario Righetti, a caldo, ipotizza la strage. Mal gliene incoglie. Il suo direttore Giovanni Spadolini lo censura e toglie la notizia dalla seconda edizione. Il sostituto procuratore di Palmi, Paolo Scopelliti, procede contro chiunque parli di strage per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico».

Eppure intorno ai Moti si moltiplicano gli attentati alle linee ferroviarie. Sulla loro matrice fascio-mafiosa indaga il cronista dell’Ora di Palermo Mauro De Mauro, ex repubblichino e milite della X Mas di Borghese. De Mauro rimane vittima della lupara bianca il 16 settembre 1970.

Pochi giorni dopo, il 22 settembre 1970, un nuovo ordigno esplode sui binari a Taureana, dieci chilometri a sud di Gioia Tauro. Un informatore avverte che la via ferrata è stata distrutta dall’esplosivo e il direttissimo Roma-Reggio viene fermato in tempo.

Pochi giorni dopo, il 26 settembre, vengono fermati anche gli anarchici reggini. Nella ricostruzione fatta da Fabio Cuzzola nel libro “Cinque anarchici” (edito da Cdse e ripubblicato in questi giorni da Castelvecchi), Casile, Aricò e tre compagni muoiono in un incidente d’auto in autostrada all’altezza di Ferentino mentre vanno a Roma a consegnare i materiali della loro controinchiesta su Gioia Tauro all’esponente della Fai (Federazione anarchica italiana) Veraldo Rossi. I documenti spariscono dal luogo del tamponamento, provocato da un camion di due dipendenti del principe Borghese, i fratelli Ruggero e Serafino Aniello. Non saranno mai ritrovati.

Anche Rossi muore in un incidente stradale quattro anni dopo (27 aprile 1974) e il 26 agosto dello stesso anno un misterioso malore dopo cena uccide Borghese, latitante nella Spagna franchista. Nel frattempo, Lotta continua e l’Espresso, con un articolo scritto da Paolo Mieli il 3 dicembre 1972 e intitolato “Investiti dal camion Borghese”, rilanciano il collegamento fra la morte dei cinque anarchici e la strage fascista a Gioia Tauro.
Bisognerà aspettare il luglio del 1993 quando, durante l’istruttoria del processo Olimpia, il pentito Giacomo Ubaldo Lauro, del clan De Stefano, rivela al magistrato applicato dalla Dna Vincenzo Macrì: «Ho dato io l’esplosivo per la bomba al treno, a Moti inoltrati. La bomba è stata messa da Silverini Vito e Vincenzo Caracciolo e vi dirò che ho preso all’epoca tre milioni... da Silverini. I soldi gli sono stati forniti da Amedeo Matacena (padre del forzista Amedeo junior latitante da sette anni a Dubai, ndr.)».

Ribadisce oggi Macrì: «Lauro prese l’esplosivo nella cava di Gennaro Musella, ucciso da un’autobomba nel 1983, ma i due esecutori erano morti ai tempi delle dichiarazioni di Lauro e il processo contro i mandanti, il gruppo missino del Comitato d’azione per Reggio capoluogo, è stato archiviato».

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