Viaggio tra giovani e anziani, pensionati e precari, Italiani e stranieri. Che solo sei mesi fa non avrebbero mai pensato di chiedere cibo e ora si mettono in fila per gli aiuti alimentari. Così con l'emergenza Coronavirus cresce la povertà assoluta (Foto di Alessio Romenzi)

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Ogni notte da quindici anni Gigi si sveglia alle tre, prende il camion a viale Toscana, a Milano, e raggiunge la destinazione del ritiro giornaliero.

È l’inizio di giugno, il paese si muove a passi incerti verso un ritorno alla normalità, la destinazione oggi è la zona industriale di Calcinate per ritirare prodotti in scadenza di grandi catene alimentari. Bancali di cibo invenduti per effetto della pandemia che senza le associazioni che aiutano i bisognosi finirebbero nei compattatori, distrutte, sprecate.

«Almeno così riempiamo lo stomaco delle persone». Gigi attraversa le campagne lombarde, ha familiarità con le curve e la terra che, all’alba, emana potente l’odore di stabbio.

A Calcinate deve ritirare diciotto bancali, 100 tonnellate di hamburger e panini e dolci surgelati di una nota catena di fast food. Sono da poco passate le sette quando raggiunge lo stabilimento, la temperatura dei frigoriferi segna meno ventiquattro, poche parole con gli addetti alla piattaforma, Gigi organizza lo spazio del furgone, saluta velocemente e torna indietro. Ci sono i pacchi alimentari da preparare.

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Gigi lavora al Pane Quotidiano, un’associazione laica che da oltre un secolo aiuta i bisognosi di Milano con beni di prima necessità. Prima della pandemia, i marciapiedi delle due sedi si affollavano prima dell’alba, poi, il 21 febbraio, la direzione ha chiuso al pubblico per ragioni di sicurezza, e la fila si è trasformata in richieste telefoniche, centinaia in pochi giorni, che avevano tutte il medesimo tono: «Ho fame. Abbiamo fame. Aiutateci».

Così l’associazione si è riorganizzata. Il grande piazzale trasformato in punto di snodo per i mezzi della Protezione Civile e i volontari, che prima preparavano i pacchi alimentari, si sono messi sulle tracce dei volti che componevano la fila del bisogno milanese e che poi sono rimasti chiusi in casa, con la paura del contagio, senza lavoro né risparmi, con la dispensa che svuotata in pochi giorni.

«Pronto? Chiamo dal Pane quotidiano, dove possiamo raggiungerla? Non esca, veniamo noi». Un numero, e un passaparola che diventa la mappa di un altro contagio, quello della povertà. I mezzi dell’associazione che ogni giorno aumentavano il numero dei viaggi, dei pacchi, della lista dei bisognosi: «anche la sua vicina ha bisogno? Non abbia vergogna, ci dia il numero la chiamiamo noi».

Il 4 giugno la sede di viale Toscana ha riaperto, la fase tre dell’aiuto coincide con la riorganizzazione degli spazi. Gli utenti non entrano più a scegliere i prodotti ma aspettano a distanza il turno di ricevere un pacco di cibo già sigillato. È sabato mattina, il cancello apre alle 9, ma alle sei la fila già gira l’angolo, arriva ai cilindri del nuovo Campus Bocconi, simboli di una città che sono due.

Due voci distinte, due direzioni contrarie.

Facce note e facce nuove, quelle delle nuove urgenze, delle nuove povertà.

Flavia è un’insegnante in un liceo, fa la volontaria da un anno e mezzo, apre la busta: pasta, pelati, sottilette, biscotti, tonno e ceci in scatola, banane «l’aiuto è reciproco, non allunghiamo una mano verso chi la tende, qui ci diamo la mano. È molto diverso, per chi da e chi prende».

Flavia avvicina le vulnerabilità con discrezione, una delicatezza che si adatta alle età e le religioni, alla conoscenza pregressa, l’imbarazzo dell’estraneità per i nuovi arrivati, inesperti a chiedere, inesperti ad accettare.
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Mariana è di origine rumena, in Italia da vent’anni, ha lavorato come badante, lavapiatti, poi un contratto in una ditta di pulizie nelle catene di hotel di lusso. Aspetta la cassa integrazione da marzo, ma niente. Ha tre figli, il più piccolo è in coda con lei. È la prima volta che ha difficoltà a fare la spesa, prima dell’epidemia il solo imbarazzo che ricorda è dover spiegare ai ragazzi di non potersi permettere le scarpe e le felpe di marca, o che non ci fossero abbastanza soldi per ricaricare il telefono ogni settimana.

Poi una mattina si è alzata e nel frigo non c’era più nulla, nel portafogli nemmeno «non avevo risparmi e mancava il necessario». Non vuole piangere, perché suo figlio è lì e perché è sola da tanti anni a crescere i ragazzi e le lacrime sono un lusso che è abituata a non concedersi. Afferra la busta e la stringe come si stringono le cose indispensabili, come l’aria mentre vai a picco «ci riprenderemo da questa vergogna?». Il saluto di Mariana è una domanda. Flavia la rincuora «rubare è vergogna», ma Mariana scuote il capo. «No - replica - perché quando non hai niente, se nessuno ti aiuta e hai bocche da sfamare, sei pronto anche a rubare».
La disperazione della fame può rovesciare le logiche del buon senso e i volontari delle organizzazioni caritatevoli oggi sono chiamati anche a questo: arginare la vulnerabilità prima che diventi devianza.

Anna ha lo sguardo di una donna coriacea. Fuori dalla mascherina ha gli occhi di una tenacia irriducibile. Ha lavorato per cinquant’anni, da quando ne aveva tredici. Prima come commessa, poi tanti altri lavori in nero, fino alla pensione minima che non basta per lei sola, figuriamoci ora che divide casa e soldi con il figlio: fino a febbraio lavorava a ore in una palestra e ora non più. La povertà per lei è un gesto, anzi due. Fa qualche passo indietro, la mano destra abbassa la mascherina fino al mento, Anna apre la bocca e allarga il sorriso: «vedi? Non è più solo questione di mangiare e non mangiare. È come fare a mangiare».

Le mancano la metà dei denti, quelli che restano sono guasti, «non so da quanti anni non vado dal dentista, non me lo posso permettere». E quando con altrettanto decoro sistema di nuovo gli elastici intorno alle orecchie si avvicina e si arrende allo stato d’animo che l’ha accompagnata in coda a viale Toscana, l’abbattimento «è una vecchiaia pesante, lo so che la vita cambia e so che la vita è fatta a scale, ma non si può sempre scendere e scendere».

Poi sistema la chiusura lampo del carrello e cammina verso la fermata dell’autobus con una busta di spesa e un rinnovato imbarazzo.

Jole ha ottantasei anni, vive con gli 850 euro di pensione, 600 vanno via per l’affitto. La matematica del bisogno è presto fatta. Prima dell’epidemia pranzava nelle mense per risparmiare su un pasto, poi anche per le mense gli orari e i posti si sono ridotti e Jole è rimasta sola in casa con poco da mangiare. Ha il corpo minuto della vecchiaia che si ricurva su sé stessa, i volontari la conoscono e lei ricambia i sorrisi chiamando tutti per nome. «Alla mia età è più brutto essere da soli che essere affamati». Così ogni mattina Jole si sveglia e si impone di fingere che vada tutto bene.

Soprattutto ora che ha ricevuto l’avviso di sfratto.
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«Che c’è di buono oggi?».

«La robiola fresca, Jole», e lei accetta grata, si ferma a parlare ancora un po’ mentre Flavia conta le persone arrivate fino a quel momento.

Sono le nove e quaranta.

Le buste consegnate sono già trecentottantasei.


Secondo l’ultimo rapporto Istat sulla povertà in Italia vivono 1,7 milioni di famiglie, 4 milioni e mezzo di persone, in condizione di povertà assoluta e 3 milioni di famiglie (nove milioni di persone) in povertà relativa. L’istituto di statistica fotografa un paese che sono tre, la percentuale di famiglie in povertà assoluta al Sud è infatti l’8,6% del totale, percentuale che scende a 5,8 al nord e 4,5 al centro.

Le differenze geografiche non sono le sole: sono più povere le famiglie più numerose e sono più povere le famiglie di cittadini stranieri residenti. Il 26,9% a fronte del 5,9% delle famiglie italiane.

I dati del rapporto si riferiscono al 2019, la preoccupazione del terzo settore è che i numeri del prossimo anno siano destinati a crescere come conseguenza dell’epidemia.
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«Nel 2019 abbiamo distribuito 75 mila tonnellate di alimenti, durante l’emergenza le richieste sono aumentate del 40% in tutta Italia con picchi del 70% al Sud». A parlare è Giovanni Bruno, presidente del Banco Alimentare, organizzazione che dal 1989 si occupa di recuperare alimenti e distribuirli a persone in difficoltà attraverso 7500 strutture caritative.

«Aiutiamo stabilmente un milione e mezzo di persone da tanto tempo, ma l’immagine del paese in stato di bisogno che ci sta restituendo questa crisi è del tutto inedita», continua Bruno. Solo a Milano le persone aiutate sono 215 mila, in costante aumento da marzo. Ma Bruno è sicuro che il picco arriverà in autunno. I virologi temono la seconda ondata del Covid, le organizzazioni caritatevoli pensano inevitabile l’inasprirsi della povertà con la fine dei risparmi, delle casse integrazioni e con le attività commerciali che stentano a ripartire. «Si sta ampliano la forbice, ci telefonano giostrai e cuochi, lavoratori dello spettacolo e commesse, camerieri e studenti che si vergognano di chiedere aiuto ai genitori. Il tema è: ora ci affanniamo a riassorbire gli effetti della pandemia. Ma già prima c’erano quasi cinque milioni di poveri assoluti e tra loro più di un milione di bambini. Tornare a prima significa tornare a questo e non è una prospettiva allegra».

Nel magazzino del Banco Alimentare ci sono beni recuperati dalla grande distribuzione e quelli finanziati dal Fondi per gli aiuti europei agli indigenti (Fead) che ha un bilancio di 3,8 miliardi di euro per il periodo 2014-2020 e un obiettivo: la lotta alla povertà e all’esclusione sociale.

Per le istituzioni europee un cittadino si considera gravemente indigente se non può permettersi un affitto o le bollette, se non può riscaldare casa, mangiare proteine di qualità volta ogni due giorni, usare un’automobile, una lavatrice o una tv a colori e permettersi un telefonino.

Marianna non può permettersi niente di tutto questo, arriva che è quasi sera in una parrocchia della periferia di Milano con due delle tre figlie, non avrebbe mai immaginato, prima di Marzo, di bussare alla porta della sagrestia per chiedere da mangiare. Ha lavorato in una mensa scolastica per diciannove anni, con un contratto a part time di nove mesi, e lo stipendio che doveva bastare per dodici facendo economia su tutto. Sua figlia Giulia che oggi ha 23 anni ha lasciato la scuola a 15 per aiutare la madre a crescere le sorelle. Ha lavorato come barista e cameriera quasi sempre in nero, poi vari stage che non sono diventati contratti di lavoro e a febbraio stava ultimando una prova che sperava diventasse un apprendistato.
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Poi la pandemia ha tradotto quella speranza nell’ennesimo «le faremo sapere».

Marianna ha smesso di pagare affitto e bollette, la cassa integrazione, arrivata con tre mesi di ritardo, è di 340 euro. Dice di sé che ha imparato a essere sorridente, che quando hai tre ragazze in casa da sfamare la vergogna sparisce, le prendi per mano e insegni loro che a volte nella vita bisogna chiedere aiuto e che stavolta è toccato a loro.

Giulia annuisce, la guarda con ammirazione. Condividono otto anni di privazioni e fatiche comuni.

«Non sappiamo più cosa sacrificare, ho smesso di studiare, ho lavorato mentre i miei coetanei si divertivano - dice Giulia stringendo forte la mano di sua madre – e alla speranza di una vita più bella non voglio rinunciare. Per me e le mie sorelle».

Che rischiano di diventare le bambine in povertà assoluta del prossimo rapporto Istat.