Chi salverà l'Italia? Le infrastrutture. Lo slogan di ogni governo degli ultimi vent'anni torna con l'esecutivo giallo-rosa. Di rilancio in rilancio si sfiora quota 200 miliardi di investimenti per oltre cento progetti. Tra commissari, “modello Genova” ed enti locali all'asfissia finanziaria ecco la nuova cura di ferro e cemento del premier Conte. Come sempre, salvo intese

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Hanno chiuso i teatri per il virus ma la commedia dell’arte infrastrutturale rimane sempre aperta e ripete a ogni stagione lo stesso canovaccio. In sintesi: l’Italia è in crisi, bisogna riaprire i cantieri, semplificare la burocrazia, investire nelle grandi opere che salveranno il paese dalla recessione, le imprese dal fallimento, i lavoratori dalla disoccupazione.

Ogni coalizione di governo da almeno vent’anni ha messo questa trama in testa ai suoi programmi con aumenti progressivi in termini di investimenti. L’ultimo rilancio, figlio del Recovery Fund, è dell’esecutivo Conte. Le cifre fanno tremare il keynesiano più fanatico. Gli investimenti in mobilità annunciati dal ministero delle Infrastrutture (Mit), guidato dalla democrat Paola De Micheli, totalizzano 196,7 miliardi di euro fra strade e autostrade, porti e aeroporti, dighe e invasi, ferrovie e metropolitane, addirittura ciclovie con 40 grandi lavori prioritari e 66 programmi di interventi.

Un terzo di questa somma (65,4 miliardi di euro) non è ancora disponibile ma si è già sentito dire, fra palazzo Chigi e la sede del Mit a Porta Pia, che 70 miliardi arriveranno dal fondo della ripresa varato dall’Ue con una dotazione complessiva di quasi 209 miliardi per l’Italia tra prestiti e contributi a fondo perduto.
Il messaggio dell’esecutivo è rafforzato dall’avanti tutta sulla figura del commissario con pieni poteri. Ne sono previsti una cinquantina per riproporre il modello Genova che consentirà la riapertura del Polcevera crollato il 14 agosto 2018 con 43 morti.

La brutta notizia per il contribuente, passata in secondo piano, è che il sostituto del ponte Morandi, costruito da Webuild e Fincantieri e affidato al commissario-sindaco Marco Bucci, è costato due volte e mezzo il prezzo di mercato. È uno scotto imposto dall’estrema urgenza ma non giustificabile per le altre opere che del resto crescono di prezzo anche quando sono state ripetutamente bocciate. È il caso di un altro ponte famoso, quello che dovrebbe unire Sicilia e Calabria. Da una previsione di costo di 6,3 miliardi è passato a 8,5 miliardi di euro grazie alle spese compensative richieste dagli enti locali. Non è chiaro a che titolo, visto che il monocampata più lungo del mondo (3,3 chilometri contro 1,4 del terzo ponte sul Bosforo) è fuori dal catalogo presentato dal Mit ai primi di luglio con l’hashtag di #italiaveloce.

Per qualche giorno il ponte sullo Stretto, appaltato al consorzio guidato da Pietro Salini (Webuild), è riaffiorato nei programmi di Giuseppe Conte con la formula “salvo intese”, che è il marchio di fabbrica del premier. Per adesso, fra i disposti all’intesa ci sono i governatori di centrodestra interessati, Nello Musumeci e Jole Santelli, le associazioni imprenditoriali locali e il leader di Iv Matteo Renzi, rottamatore redento.

Il M5S rimane “no-ponte”, a differenza di quanto accaduto con opere che il governo intende portare avanti, come la Torino-Lione, la Gronda di Genova, il passante di Bologna, la Roma-Latina o il nodo Av di Firenze, dove i grillini hanno abbracciato l’odiato partito del cemento già ai tempi di Danilo Toninelli ministro.

LIGURIA SUPERSTAR
La moltiplicazione dei pani e dei pesci sotto forma di appalti pubblici è studiata anche per offrire prospettive di sviluppo agli enti locali in crescente asfissia finanziaria.
La Liguria di Giovanni Toti, che va verso le elezioni del prossimo settembre con i favori del pronostico, aspetta investimenti per 16,4 miliardi di euro, fra Gronda, terzo valico ferroviario e lavori al porto di Genova.
Il presidente del Lazio e segretario nazionale Pd, Nicola Zingaretti, ha accolto come una grande vittoria l’impegno del governo a finanziare lavori sul suo territorio per 6,3 miliardi. Oltre all’autostrada Roma-Latina, nell’elenco c’è la Cisterna-Valmontone e il completamento di un non finito storico, il collegamento Orte-Civitavecchia. Fra le grandi incompiute della capitale, impossibile non citare la metro C. Dopo un ventennio di ritardi il 23 luglio Virginia Raggi ha inaugurato gli scavi della talpa fra il Colosseo e piazza Venezia. La sindaca ne ha approfittato per invocare un commissario per i lavori che porteranno all’apertura della ventiquattresima stazione, quella del Colosseo appunto, nel 2025. Dopo di che si potrebbe procedere verso Prati e Farnesina o forse ancora oltre. Sempre salvo intese con i costruttori.

La metro C è uno dei teatri di crisi delle grandi imprese edili italiane. In questo caso, si tratta di Astaldi, uno dei soci del consorzio Metro C, che due settimane fa ha ottenuto il concordato preventivo. In autunno dovrebbe esserci un aumento di capitale da 600 milioni per mettere la società (44 miliardi di portafoglio lavori) sotto l’ombrello di Webuild, a sua volta partecipata al 18,5 per cento da Cdp equity. L’altra grande decaduta, Condotte, è già in amministrazione straordinaria, schiantata dai lavori per l’alta velocità a Firenze. Il capoluogo della Toscana, un’altra regione al voto in settembre, è presente nella lista del Mit anche con il contestatissimo aeroporto di Peretola.

In Lombardia, la regione più colpita dal Covid-19, è stato confermato l’impegno per la Pedemontana che nel frattempo si è di nuovo bloccata perché mancano 350 milioni di euro di fondi regionali per il 2020. Se ne riparlerà nel 2021.
Poco Sud nel programma, questo risulta chiaramente. Oltre a qualche strada come la 106 Reggio-Taranto, che costa moltissimo e serve un territorio in costante calo demografico, c’è la promessa di rafforzare i treni veloci non soltanto fra Napoli e Bari ma anche fino alla punta della penisola e persino in Sicilia dove i collegamenti restano molto al di sotto degli standard europei.
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DANNATI BUROCRATI
Le accuse alla burocrazia sono il passaggio obbligato dei nuovi programmi sulle infrastrutture che, non a caso, Giuseppe Conte ha inserito nel decreto Semplificazioni del 7 luglio. In un mondo di norme complesse e stratificate, il burocrate ministeriale ha certamente gioco facile nel dribblare il politico di turno senza nemmeno fargli capire com’è potuto accadere. Forse basterebbe un burocrate di buone intenzioni per mettere all’angolo il burocrate fraudolento o forse il burocrate buono non esiste.

La caccia al burosauro consente di evitare un tema almeno altrettanto critico. I modelli di governance privatistica che sono stati applicati alle aziende pubbliche non possono essere elusi. Ci sono contratti di programma con Rfi e Anas. Ci sono piani trasporti con le regioni. Ci sono convenzioni con i concessionari privati che non possono essere semplicemente stracciate e lo si è visto nella vicenda Autostrade-Polcevera, affrontata a muso duro con la promessa di revoca della concessione e conclusa molto più morbidamente e salvo intese tanto che l’aumento di capitale targato Cdp è già slittato al 2021 dopo le proteste dei fondi stranieri azionisti della holding Atlantia.
Come suggerisce un dirigente del gruppo Fs, il governo presenta il suo programma di sviluppo ma è il management di Ferrovie a decidere il come, il dove e il quando nel rispetto dei vincoli di un bilancio sorvegliato da sindaci, revisori, dalla magistratura contabile e, in caso di strappo alle regole, dai tribunali penali. Il piano industriale presentato l’anno scorso dall’ad di Fs, Gianfranco Battisti, procede per conto suo con 58 miliardi di investimenti fino al 2023. L’esecutivo sembra più interessato alle poltrone e qui la maggiore novità potrebbe riguardare il top management, con Maurizio Gentile di Rfi, 65 anni, che è dato in uscita verso la Strada dei parchi (gruppo Toto).

Un esempio chiaro di come la governance privatistica sia in conflitto con il neodirigismo statalista è nell’alterco tra il Mit e l’Anas (gruppo Fs) di cui l’Espresso ha dato notizia tre mesi fa. La contesa è nata dall’ennesimo crollo, stavolta quello del viadotto sul fiume Magra, e nei toni sembrava preludere all’estromissione di Roberto Simonini. La replica dell’ad Anas è stata altrettanto dura e ha costretto De Micheli a reagire come Totò nello sketch di Pasquale («chi sa questo stupido dove vuole arrivare») per non turbare i rapporti con il suo vice al Mit, il grillino Giancarlo Cancelleri che sostiene Simonini.

I piani quinquennali di investimento passano sempre dalle necessità a breve termine. La prima fra tutte è non mettere a rischio gli equilibri della coalizione di governo.

PROGETTI E GRANDI VECCHI
Per spendere 196 miliardi ci vogliono i progetti, tradizionale punto debole del sistema che ha già reso difficile l’impiego dei fondi europei. Nell’incertezza perenne e nel groviglio delle prescrizioni di legge si fatica a passare dalla fase preliminare alla fase esecutiva, dove già i costi salgono in modo consistente. Fra codice degli appalti, conformità ambientali e urbanistiche, adeguamento alle disposizioni anti-corruzione, le amministrazioni locali spesso non sanno dove sbattere la testa. Da qui nascono altre strutture che dovrebbero semplificare ma che, intanto, moltiplicano i soggetti in campo. Per guidare 3300 comuni nel labirinto delle procedure è nato il consorzio Asmel che si è dotato di un osservatorio sulla semplificazione amministrativa e di una piattaforma web (TuttoGare). Lo scorso autunno Asmel, che percepisce un compenso in percentuale sull’appalto da chi si aggiudica la gara, è finita nel mirino dell’Anac per «l’aggiramento del divieto di porre a carico dei concorrenti, nonché degli aggiudicatari, i costi connessi alla gestione di piattaforme telematiche». A marzo, con i cantieri fermi per virus, l’Anticorruzione ha annunciato che ricorrerà contro tutti i bandi promossi da Asmel con un incremento del già enorme contenzioso di settore.

Infine, come se non bastassero le complicazioni normative, la progettualità debole e la scarsa verosimiglianza degli annunci del governo, c’è una pattuglia di grandi vecchi che, dopo avere tenuto le leve del potere per decenni con risultati sotto gli occhi di tutti, non rinunciano ad avere voce in capitolo.
L’ex plenipotenziario delle Fs Mauro Moretti, condannato in secondo grado per la strage di Viareggio, sussurra all’orecchio della ministra De Micheli. L’ex ministro Pietro Lunardi, regista della mitica puntata di Porta a Porta in cui Silvio Berlusconi illustrò la legge obiettivo con lavagnetta e pennarello, dispensa consigli ai perplessi. Fa lo stesso uno dei padri dell’Av ferroviaria Ercole Incalza e non in privato come Lunardi ma in pubblico con il suo blog stanzediercole.com dove pubblica post disperati fin dal titolo («spesso penso di essere in Somalia», 24 luglio 2020). Su una linea simile si muove Gabriele Camomilla, che ha difeso a lungo l’ipotesi di salvare le parti integre del ponte Morandi, da lui riparato un quarto di secolo fa. Ora in pensione ma direttore manutenzioni e nuove costruzioni ai tempi di Autostrade pubblica, Camomilla attribuisce all’esecutivo la volontà di affrontare il tema infrastrutture attraverso gli stessi “meme” che imperversano sulle piattaforme social. Non ha tutti i torti.

 

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