Operai travolti da un muletto, folgorati, schiacciati da una gru. Per recuperare il tempo perduto le aziende hanno imposto ritmi massacranti e pochi controlli sulla sicurezza. E si impenna il bilancio dei morti, soprattutto nei cantieri

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La data più nera, da quando l’Italia ha riaperto, è il 20 luglio. Quel giorno sono morte, qua e là per la penisola, mentre semplicemente lavoravano, cinque persone. La loro età oscillava tra i 29 e i 54 anni. Chi è precipitato da oltre venti metri d’altezza, chi falciato da un Suv in un cantiere della fibra ottica. Il giorno più assurdo e perverso è stato invece il 23 maggio. A Barletta un operaio cinquantenne è caduto da una scala mobile e si è sfracellato al suolo. È deceduto poco dopo essere arrivato al Pronto soccorso: stava montando la cartellonistica con le norme anti Covid da far rispettare sul posto di lavoro.

Uomini travolti da un muletto, da un carrello levatore o schiacciati da una gru, una pala meccanica, una lastra di metallo assassina. Uomini folgorati da scariche elettriche, che precipitano da ponteggi di cartapesta dove mancano persino i parapetti. Terminato il lockdown, non appena si è tornati a produrre a pieno regime, la scia di sangue è ripresa a scorrere più impetuosa di prima. E l’implacabile contabilità degli incidenti mortali sul posto di lavoro è risalita rapidamente a due cifre. Una carneficina. Soprattutto nei cantieri, dove bisognava recuperare, e al più presto, la produttività perduta. A prescindere da protezioni, orari stabiliti e standard di sicurezza.

Raccontano all’Espresso dall’Anmil, Associazione nazionale mutilati e invalidi sul lavoro: «Una sospensione così prolungata ha bloccato tutte le operazioni di prevenzione sul posto di lavoro, nonché la necessaria formazione. Così i lavoratori si sono ritrovati in una situazione sconosciuta, che ha generato problemi». Dal 4 maggio, dopo la fine del fermo del Paese, sono morte lavorando almeno 142 persone. La stima scaturisce dall’incrocio dei dati disponibili ed è in continuo divenire. E non comprende, come sempre, tutta la fetta considerevole di sommersi e irregolari, che siano migranti senza permesso di soggiorno o italiani all’ultimo stadio dell’indigenza.
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Dice Renata Semenza, docente di Sociologia economica e del lavoro all’Università degli studi di Milano: «Il coronavirus sta mettendo a nudo i fortissimi problemi strutturali del nostro mercato del lavoro, mai entrati davvero nell’agenda politica. Come la carenza di ispezioni e controlli sul luogo di lavoro, crollati verticalmente, e la mancanza di verifiche tecniche nelle costruzioni, nella manutenzione delle infrastrutture. E pensare che all’inizio degli anni Novanta esisteva ancora una struttura di controllo molto efficiente, capillare e rigorosa: si è deciso però di smantellarla, pezzo dopo pezzo, come nella sanità».

Allargando ulteriormente lo sguardo e includendo i lunghi giorni del #restiamoacasa, scopriamo che le morti sul lavoro sono state, dall’inizio dell’anno, 570 (fonte Inail), con un aumento di 88 unità e del 18,26 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019. Numeri vertiginosi, perché di mezzo c’è stata la quarantena. L’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro addebita 276 di questi decessi al Covid-19, con 51.363 casi complessivi di contagio. Ma la sostanza non cambia: eccezion fatta per gli operatori sanitari, negli altri comparti si è spesso riaperto il cantiere, la fabbrica o l’ufficio in fretta e furia, senza predisporre gli indispensabili protocolli di distanziamento e sicurezza. E in tanti hanno contratto il virus.

Il settore più colpito in assoluto è quello dell’edilizia. La Fillea Cgil, il principale sindacato di categoria, parla chiaro: rispetto allo scorso anno, da inizio maggio a oggi, si è verificata un’impennata del 16 per cento delle morti, 43. Dal principio del 2020 ammontano a 62. Di fatto, quindi, oltre nove scomparsi sul lavoro su dieci sono nell’edilizia. E il grosso delle disgrazie avviene nel comparto privato. «È un settore oltremodo sovvenzionato ma poco controllato. Il Covid ha accelerato una tendenza già in atto: le imprese edili sopravvissute al lockdown hanno aumentato il carico di lavoro», dice il segretario generale Fillea Alessandro Genovesi: «Avevano le consegne ferme da due o tre mesi e per recuperare hanno intensificato gli orari. Ci sono lavoratori che stanno in cantiere anche 13 o 14 ore di seguito. E a quel punto cala il livello d’attenzione, la stanchezza è tale che lievitano gli incidenti. E le morti».

Per sopravvivere, sottolinea il sindacalista, le aziende promettono ai clienti performance migliori, ma allo stesso prezzo e col medesimo numero di addetti a disposizione. Come uscire da questa spirale perversa? «Nell’edilizia privata ci stiamo impegnando per il “Durc di congruità”, un certificato online che arriva in tre giorni e garantisce la regolarità dei lavoratori. Quanto a quella pubblica, proponiamo un patentino, un sistema a punti per le aziende più virtuose. E bisognerebbe introdurre l’aggravante penale dell’omicidio sul lavoro».

Un nuovo pericolo si delinea, intanto, all’orizzonte: il super ecobonus del 110 per cento previsto per tutti gli interventi capaci di ridurre l’impatto ambientale degli edifici, produrre un risparmio energetico e proteggere dai terremoti. Sottolinea Genovesi: «Rischiamo di alimentare del nuovo lavoro irregolare, perché si potrà beneficiare del superbonus, direttamente o cedendo il credito, anche ricorrendo a un’impresa edile non in regola, che non assicura lavoro sicuro. Più si aumentano gli incentivi di Stato e più si rischia di incentivare pure le degenerazioni del sistema». Preoccupazione condivisa dalla sociologa del lavoro Renata Semenza: «Con l’ecobonus del 110 per cento potrebbe instaurarsi un clima di grande fretta e questo moltiplicare i cantieri, far diminuire i controlli e accentuare le vulnerabilità. Difficile tutelarli, questi cantieri, ed erogare formazione al loro interno». Complicato, ma non impossibile: ci vorrebbe un impeto di vigilanza collettiva, dall’alto e dal basso, per scongiurare il naufragio morale di una misura potenzialmente importante. In ogni caso, lo stillicidio quotidiano dei caduti sul posto di lavoro è una catastrofe universale, sì, ma tricolore. Che viene da lontano.

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I morti sul lavoro oltre i numeri: chi sono le vittime dietro le statistiche
27/8/2020
«In questa classifica siamo secondi in Europa. Le morti aumentano in particolare nell’industria pesante, nell’edilizia e nell’agricoltura», continua la professoressa Semenza: «Incide parecchio la precarizzazione tipica di questi segmenti, con personale a giornata e piccole e piccolissime imprese frutto del decentramento produttivo. Dipende dalla struttura del sistema economico: se è trainato dal terziario, o da quel turismo che pure ci sarebbe connaturato, i rischi sono decisamente minori. Tuttora, invece, l’Italia è dominata da edilizia e industria pesante. Da un’economia “hard”, come negli anni Cinquanta. E questo provoca una maggiore quantità di incidenti letali». Anche perché è sottodimensionata l’occupazione femminile, «solitamente assorbita da settori meno problematici, come i servizi pubblici e privati». Da noi solo una donna su due in età lavorativa ha un impiego. «Viviamo in una terra che non cresce e non crea occupazione qualificata», conclude Semenza.

Le chiamano “morti bianche”: locuzione edulcorata, ma Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a Firenze, si batte strenuamente contro questa definizione di comodo: «Non la sopporto, la combatto da sempre», afferma. Tanto da compilare, senza soluzione di continuità, la sua lista di questo incivile martirologio laico. Per dare a tutti un nome, un volto, una dignità. Ha scritto in materia parole toccanti, che ci consegna e riportiamo qui sotto, in sintesi. Un atto indirizzato anche a quelli che restano: alle famiglie delle vittime, col cuore e il futuro a brandelli. «Le chiamano morti bianche, come avvenissero senza sangue. Le chiamano morti bianche come fossero dovute alla casualità, alla fatalità, alla sfortuna. Le chiamano morti bianche per evitare che si parli di omicidi sul lavoro. Le chiamano morti bianche, ma quasi sempre dipendono dal fatto che in quell’azienda non si rispettavano neanche le minime norme per la sicurezza sul lavoro».

Qualche anno fa, nel suo esperanto mediterraneo, cantandola insieme a Francesco Guccini, Enzo Avitabile ha composto “Gerardo nuvola e’ povere”. Una canzone bellissima, dedicata alla storia di un muratore del Sud andato a morire in un cantiere emiliano: «Ma senza alcuna protezione caduto sul lavoro/Era venuto pè faticà nun era venuto p’ murì/Era venuto p’accumincià, non ero venuto p’è fernì/Morta janca, prematura/Sott’à na nuvola è povere». Gerardo si era trasferito per lavorare, non per morire. Per cominciare un nuovo percorso, non certo per finire violentemente i suoi giorni. Sotto una nuvola di polvere.