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Attualità
agosto, 2020

La Grande Incertezza

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Alle elezioni americane mancano tre mesi. E saranno i 90 giorni più pericolosi dell'anno perché per evitare di perdere Trump è pronto a tutto. In un mondo fuori controllo e senza governo.

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I tre mesi più pericolosi del già terrorizzante anno 2020 sono cominciati nella serata di martedì 4 agosto, con l’esplosione nel porto di Beirut avvertita a centinaia di chilometri di distanza, fino all’isola di Cipro, la palla di fuoco come un fungo atomico che ha divorato la città. E finiranno (forse) nella notte tra martedì 3 e mercoledì 4 novembre, con il voto per il presidente degli Stati Uniti. Un’elezione ad alto rischio e senza precedenti, come tutto lo è nell’anno della pandemia. Con la nazione americana in testa alla tragica classifica della diffusione del contagio, 4,8 milioni di positivi, e dei decessi, 160 mila morti. Con le convention per la nomina dei candidati repubblicano e democratico in streaming e senza platee festose. E con la contestazione del risultato finale già in corso, senza che ancora sia stata aperta un’urna, da parte del presidente in carica.

La messa in discussione della data del voto è soltanto una boutade perché la scelta del primo martedì ogni quattro anni successivo al primo lunedì di novembre non è nella disponibilità dell’amministrazione in carica, ma è lo specchio dell’incertezza che è il tratto caratteristico del nostro tempo e di questa estate. Incertezza sul futuro nelle viscere della società occidentali, nelle scelte quotidiane da compiere ogni giorno: lo si vede in Italia in questi giorni, dal distanziamento sui treni alle partenze per le vacanze al ritorno dell’anno scolastico. Incertezza sulla ripresa economica e produttiva. Incertezza sulla leadership mondiale.

Donald Trump si era presentato nel 2016 come l’uomo forte, decisionista, sprezzante di regole, comportamenti consolidati, consuetudini, e aveva vinto con lo slogan “Make America Great Again”, il capofila dei sovranisti mondiali. Oggi è il volto dell’incertezza mondiale. Un presidente che non riesce a proteggere neppure il funzionamento puntuale dell’istituzione più delicata, il meccanismo che garantisce ogni quattro anni l’elezione dell’inquilino della Casa Bianca. Che sul Covid ha dato istruzioni atrocemente contraddittorie. E che ora è alle prese con la sua emergenza personale e politica: come risalire nei sondaggi che lo danno per sconfitto contro Joe Biden. Le speranze di intestarsi la scoperta del vaccino anti-virus o di una piccola ripartenza dell’economia sono sempre più flebili e si concentrano nello spazio di poche settimane.

Tutto questo aumenta le possibilità che il fatto nuovo, l’evento che cambia il corso della campagna elettorale, si scateni sul piano internazionale. «Nei prossimi tre mesi Trump non permetterà che il candidato democratico si presenti come il più credibile paladino della superiorità americana. Prepariamoci a nuove sorprese», ha scritto Romano Prodi (Messaggero, 2 agosto).

Quella con la Cina resterà una guerra di parole, sullo scenario mediorientale invece ogni azione è possibile: in fondo il 2020 era cominciato con la decapitazione del pezzo forte del regime iraniano, il generale Qassem Suleimani, ucciso da un drone Usa. Poi l’anno ha preso una piega decisamente imprevista e ancora una volta tutto è cambiato. Ora pandemia, guerra e incertezza politica potrebbero darsi appuntamento nei prossimi tre mesi, da qui a novembre, in un mosaico infernale, di cui il fuoco che divora tutto di Beirut è l’icona che entra nella storia. Peggio di una leadership forte che non conosce limiti c’è solo una leadership incerta che non riesce a fare i conti con la realtà. «Trump è politicamente morto», liquidano la faccenda la maggior parte degli analisti finanziari. Ma il fatto che invece sia vivo, in una situazione drammatica, rende tutto molto rischioso. È il mondo fuori controllo, da Beirut a Washington, da Pechino e Bruxelles, che ci raccontano i nostri inviati e commentatori: Gigi Riva, Francesca Mannocchi, Lorenzo Forlani, Dario Fabbri, Jeff Stein, Alberto Flores d’Arcais, Federica Bianchi, Alessandro Aresu.

I tre mesi più pericolosi del mondo sono anche i tre mesi più pericolosi per l’Italia.
Calendario alla mano, ci separano poche settimane dal voto del 20 settembre per le elezioni regionali e per il referendum sulla modifica della Costituzione già votata dal Parlamento, il taglio del numero dei parlamentari. E poi la legge di Bilancio più complicata della storia. La decisione sui fondi europei Mes. E soprattutto il Piano di Riforme da presentare a Bruxelles per accedere ai finanziamenti di Next Generation dal 2021, per il successivo biennio. Su transizione ecologica, digitalizzazione, infrastrutture, pubblica amministrazione, giustizia, sanità pubblica il governo italiano dovrà in poche settimane mettere in campo progetti strutturali su nodi mai sciolti in decenni. Un programma di lungo periodo, in grado di cambiare il volto del Paese per il prossimo decennio, da scrivere in pochissimo tempo, nella situazione di massima incertezza.

È il pericolo che corre l’Italia nei prossimi tre mesi: la grande occasione perduta, la chance mancata, il tempo dilapidato. Per mancanza di visione, mancanza di coraggio, corto respiro, breve veduta. Sulle riforme da presentare all’Europa e su tutto il resto. L’estate 2020 è segnata dai respingimenti alle frontiere, da Lampedusa al confine con la Slovenia a Ventimiglia. Lo specchio di un’impossibilità di governare il fenomeno immigrazione, non certo l’emergenza sbarchi come afferma la propaganda della destra di Matteo Salvini (in disarmo) e di Giorgia Meloni (in spolvero), dato che con l’arrivo dei migranti le nostre comunità convivono da almeno trent’anni (la storia della Pantanella, estate 1990).

«Il semicerchio di instabilità alla frontiera con il mondo del caos preme dove siamo più esposti, fra Adriatico, Ionio e Canale di Sicilia. E dove clamorosa s’è esibita nel trascorso trentennio la vena autolesionistica che ci tormenta e distingue» (Limes 7/2020). Ma le classi dirigenti italiane parlano d’altro. C’è una pulsione a frammentare, masticare, sminuzzare e digerire le questioni che accomuna i partiti di maggioranza e opposizione e i loro nevrotici capi. Ciascuno chiuso nei cavilli del suo cuore, a partire dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Salvini torna al Papeete e trova Luca Zaia pronto a sostituirlo nella rappresentazione di una leadership diversa. Meloni sale nei sondaggi, ma l’esito non è una scintilla di luce, semmai un elemento di incertezza in più, con i principali quattro partiti italiani che stando agli studi più credibili si confrontano convincendo più o meno un quinto dell’elettorato a testa: Lega, Pd, M5S e FdI si aggirano intorno al 20 per cento, rendendo impossibile una maggioranza che non sia spuria o apertamente trasformista. Il Movimento 5 Stelle, che in questo Parlamento esprime i gruppi parlamentari più numerosi, è sorpreso nel passaggio storico della seconda metà del 2020 a litigare su presidenze di commissione, scontrini non presentati per il rendiconto, le deleghe allo sport del ministro Spadafora, reggenti in disarmo come Vito Crimi e giovani volpi già aduse al tirare a campare come Luigi Di Maio.

Resta, naturalmente, il Pd e il suo segretario Nicola Zingaretti che negli ultimi giorni è oggetto di numerosi corteggiamenti. Il consigliere ombra Goffredo Bettini  gli suggerisce di entrare al governo. Una soluzione che presenta numerosi vantaggi, dal punto di vista del Nazareno: sarebbe una exit strategy rispetto a un’eventuale sconfitta alle elezioni regionali, ma anche un rafforzamento del governo in vista del Piano Riforme da scrivere. E lascerebbe libera la presidenza della regione Lazio come contropartita per una candidata dei Cinque Stelle (Roberta Lombardi che già oggi sostiene in consiglio regionale la giunta di centrosinistra) al posto della rinuncia di Virginia Raggi alla candidatura per un secondo mandato in Campidoglio. Zingaretti poteva entrare nel governo un anno fa, quando partì l’avventura del Conte due e della maggioranza giallorossa, per segnare l’impegno del Pd nell’impresa con il suo massimo esponente.
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Oggi Zingaretti è di nuovo di fronte al bivio. O entra al governo, e il Pd passa alla reggenza del vice-segretario Andrea Orlando, con l’identificazione totale tra partito e governo e addio sogni di rifondare la sinistra. Oppure resta fuori, e allora è obbligato a distinguere il Pd da Conte e dai 5 Stelle su almeno tre questioni-chiave. La prima, la più urgente, è la risposta da dare al paese in crisi economica: una risposta che deve mettere insieme le misure di sostegno per imprese e commercio, lavoratori dipendenti, autonomi e precari, la prospettiva di più lunga durata che riguarda le riforme da fare e la tenuta del sistema sociale, affidata in modo particolare agli amministratori locali che si trovano sul fronte più caldo e esposto. La seconda è la questione immigrazione e sicurezza che non può essere abbandonata ai diktat della Farnesina formato Di Maio, ansioso di occupare il vuoto politico lasciato da Salvini in difficoltà (su questo, l’intervento dell’europarlamentare Pd Pierfrancesco Majorino, pagina 49). La terza è la questione più delicata, ovvero lo stato di salute della democrazia italiana. Di questo parliamo quando si discute di legge elettorale e ancor più di taglio del numero dei parlamentari. Può dispiacere ai neo-qualunquisti che hanno riscoperto la centralità dell’ombrellone da spiaggia come luogo del dibattito politico. Ma sul voto referendario in apparenza secondario e scontato, come accaduto in altri momenti della storia recente, si concentrano tante altre questioni. La rappresentanza democratica, già stremata da liste bloccate, partiti personali, partiti aziende, piattaforme on line, uscirebbe ancora più indebolita dal taglio dei parlamentari senza altre riforme. Altro che novità: sarebbe l’ennesimo capitolo di una storia in cui non esistono progetti complessivi, coerenti, ma frammenti di interessi particolari. Questa volta al servizio di un populismo che diventa demagogia sconclusionata.

Di fronte a tutto questo nel Pd crescono i ripensamenti, come dimostra il no di Gianni Cuperlo . Tocca a Zingaretti e non mollare, se si vuole rilanciare l’identità del Pd. Un anno fa definimmo il segretario del partito “il compagno Boh” e lui se ne ebbe un po’ a male, ma era l’intuizione che l’età dell’incertezza stava per cominciare anche per lui. Oggi Zingaretti deve resistere alle tentazioni personali e alle sirene interne, perché un Pd così puo avere ancora un ruolo. E se Zingaretti trova il coraggio di dare voce e gruppo dirigente a questa forza forse i prossimi tre mesi non andranno sprecati. Di un partito silente e infelicemente governativo, rassegnato al ruolo di comprimario, per sempre figlio di un dio minore, come lo immaginano i suoi strateghi più intelligenti e più cinici, invece no, non c’è bisogno. Soprattutto nell’età dell’incertezza.

 

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