«Sul piano relazionale, l’interazione faccia a faccia è insostituibile ai fini dei processi di socializzazione». Massimo Baldacci, ordinario di Pedagogia generale all’Università di Urbino, spiega quali possono essere le conseguenze della didattica a distanza

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Di scuola si parla con crescente apprensione, in vista dell’imminente riapertura. Eppure, il dibattito attuale è saturato dalle questioni logistiche: «Distanziamento, banchi, mascherine, misure sanitarie sono aspetti certo imprescindibili», dice Massimo Baldacci, ordinario di Pedagogia generale all’Università di Urbino, «ma una volta assicurate le condizioni materiali, rimane da pensare come muterà la didattica e come salvaguardare la missione formativa della scuola».

La didattica a distanza si è resa necessaria nell’emergenza, ma non va confusa con la normalità della formazione scolastica. Cosa offre in più la didattica in presenza?
«Le differenze sono importanti, sia in senso relazionale sia in senso cognitivo. Sul piano relazionale, l’interazione faccia a faccia è insostituibile ai fini dei processi di socializzazione, perché coinvolge il linguaggio verbale e non verbale; e socializzarsi significa anche imparare a codificare-decodificare la comunicazione nella sua complessità. Dal punto di vista relazionale, poi, l’aula scolastica non è solo uno spazio fisico: è un luogo simbolico, dove l’alunno può percepire il legame sociale e affettivo che lo lega agli altri in una comunità, e dove si costruiscono gradualmente una memoria condivisa, un linguaggio comune, l’articolazione di simboli. Viceversa, nello spazio virtuale della didattica a distanza il legame sociale non è percepibile. L’ambiente virtuale non può offrire un ancoraggio saldo all’esperienza, non avendo quella pregnanza che ha un’aula reale, come contesto simbolico: si pensi solo all’uso delle pareti, su cui sono esposti cartelloni, lavori».

Dal punto di vista cognitivo, invece, cosa cambia?
«La didattica in presenza permette l’accesso a un’interazione sociale che è anche cognitiva. L’insegnante ha la visione della classe e raccoglie una gran quantità di messaggi rispetto a cui calibrare l’andamento della lezione. Quando poi entra in rapporto dialogico con il singolo alunno, la possibilità di osservarlo consente di adattare la comunicazione ai suoi registri linguistici, ma soprattutto alla manifestazione dei suoi stati d’animo, alle sue perplessità, alle sue insicurezze, ai suoi dubbi, e alle sue difficoltà fisiche o di apprendimento. La didattica in presenza attiva una risorsa importantissima, come la discussione: un confronto diretto, immediato, ben diverso da quello differito e mediato delle comunità virtuali. Nella discussione si impara a considerare i diversi punti di vista, ci si decentra, ci si allena nell’osservazione delle questioni da altre angolazioni: si matura un’esperienza al confronto che è fondamentale nell’educazione alla cittadinanza».

Come muterà, con il rischio del contagio, la relazione con il corpo, dimensione in cui avviene la costruzione della persona?
Verso la riapertura
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«È indubbio che, in generale, la scuola si sia maggiormente occupata del disciplinamento del corpo, anziché metterne a frutto le potenzialità formative. Due elementi della corporeità andrebbero invece valorizzati: l’operatività, che integra cognizione e sfera psico-motoria, e la relazionalità nella sua completezza sensoriale. Questo secondo aspetto certamente risentirà delle restrizioni che stiamo vivendo, per esempio a causa della mascherina, che modifica la dinamica dell’interazione, non consentendo una visione completa della mimica facciale dell’interlocutore. Ma questo potrebbe trasformarsi in un’occasione in cui valorizzare, con specifici giochi e attività, gli elementi non verbali della comunicazione: l’espressione degli occhi, la gestualità, la postura».

È la comunicazione ciò che, più di tutto, va preservata?
«Il contesto scolastico può essere educativo e formativo solo come comunità. E una comunità non è solo la condivisione di uno spazio: significa mettere in comune significati e valori. Nella comunità, vedere che tutti considerano importante qualcosa è la via d’accesso per i ragazzi a un contesto dotato di senso. Perché questo avvenga, occorre una comunicazione che non sia solo trasferimento di informazioni dal docente all’alunno, ma anche confronto fra ragazzi, durante il quale si produce una disposizione sociale ed etica imprescindibile. Sono la comunicazione, il confronto, la disposizione civica e comunitaria ciò che, quali che saranno le condizioni in cui si tornerà a far scuola, non può in alcun modo essere sacrificato. Se si andasse verso una soluzione mista di didattica a distanza e in presenza si dovranno ben bilanciare i tempi di insegnamento; in linea di massima: l’insegnamento frontale durante i momenti a distanza, mentre alla discussione andranno riservati i momenti di presenza».

Oltre al sospetto indotto dal contagio, cosa ostacola la formazione del senso di comunità?
«La scuola è oggi sempre più intesa come un’istituzione che deve garantire lo stock di competenze tecniche utilizzabili nei processi produttivi. Si è verificata una subordinazione della scuola al sistema economico: essa viene presentata come un’azienda e la vita scolastica è pensata entro una cornice di tipo concorrenziale. Le scuole competono fra loro, e così gli insegnanti; inoltre bisogna sollecitare la competizione fra gli studenti per stimolare l’eccellenza dei risultati. Spero che la fase attraversata abbia dimostrato che queste sono retoriche vuote, che l’idea fondamentale da valorizzare è quella della scuola come comunità democratica, inclusiva, preoccupata di formare cittadini critici e consapevoli, e non semplicemente capitale umano. Abbiamo potuto affrontare mesi difficili grazie all’impegno degli insegnanti, e non grazie all’organizzazione aziendale della scuola. Il vero motore sono stati gli insegnanti, che hanno trovato soluzioni artigianali e creative per permettere una continuità nell’insegnamento. Il loro ruolo andrebbe valorizzato, come la collaborazione dei consigli di classe e il mutuo supporto fra studenti; non la competizione».

Qual è, invece, il ruolo delle famiglie?
«In questi anni si è indebolita l’idea dell’educazione come responsabilità dell’intera collettività sociale, e non solo come una questione privata. Il ruolo della famiglia è fortissimo, ma essa deve sentirsi integrata in una rete di solidarietà. Dove i servizi per l’infanzia e quelli scolastici convivono in un contesto collaborativo - penso all’esperienza delle scuole d’infanzia di Reggio Emilia -, i risultati sono concreti: la cittadinanza partecipa attivamente alla fioritura dei soggetti e la famiglia si sente affiancata. Anni fa si parlava di “società educante”. Oggi questa espressione è svanita dal dibattito, ma il concetto resta valido: perché l’educazione possa avere buon esito serve un’integrazione tra i diversi luoghi formativi».