Nell'aula buker della piana di Lamezia Terme andranno alla sbarra 325 imputati. Un intero mondo delle cosche collegate ai politici e all’imprenditoria, a giudizio proprio nella terra in cui le ‘ndrine si sentono ancora forti. Ma adesso lo Stato tenta il contraccolpo
Al primo grande processo alla ‘ndrangheta, per il numero di imputati, è stato dato il nome di “Rinascita Scott”, che porta non solo a una nuova vita per la Calabria, ma anche a onorare un agente speciale dell’antidroga americana, la Dea, Sieben William Scott, scomparso nel 2013 dopo essere stato impegnato in una lunga attività investigativa fra l’Italia e gli Stati Uniti. E così dal 13 gennaio nella piana di Lamezia Terme, dove è stata realizzata una grande aula bunker di oltre tremila metri quadrati, andranno alla sbarra 325 imputati accusati di associazione mafiosa, estorsione, detenzione di armi, narcotraffico, rapina, usura, danneggiamenti, concorso esterno in associazione mafiosa e tentati omicidi.
Al centro del dibattimento che si svolge davanti ai giudici del tribunale di Vibo Valentia, c’è la
potentissima cosca dei Mancuso di Limbadi che domina con i propri uomini su un vasto territorio della Calabria e che in passato non si è fatta scrupoli di uccidere le donne di famiglia che avevano tentato di collaborare con la giustizia.
Sono state “suicidate” grazie alla complicità di servitori infedeli dello Stato e di colletti bianchi collusi, oltre che dei familiari del clan che non hanno avuto dubbi nel procedere alla loro uccisione. E in questo maxi processo
i pm della procura di Catanzaro, diretta da Nicola Gratteri, hanno raccolto sul banco degli imputati oltre agli ‘ndranghetisti, pure colletti bianchi, professionisti, politici e massoni.
C’è dunque il mondo delle cosche collegate ai politici e all’imprenditoria che va sotto processo proprio nella terra in cui le ‘ndrine si sentono ancora forti. E adesso lo Stato tenta il contraccolpo, il gesto concreto di processarli tutti insieme, in tempi – si spera – rapidi. La giustizia riscalda i motori, e lo faranno anche i circa 600 avvocati che sono stati chiamati a difendere gli imputati.
L’accusa in questo processo proverà a dimostrare tante cose brutte della ‘ndrangheta, compreso il fatto che se la droga rappresenta il core business delle cosche globalizzate, i clan continuano a operare un controllo penetrante in molte attività economiche della regione, esercitando un pesante condizionamento in tutti i settori dell’economia legale, dall’edilizia al commercio, dalla ristorazione ai trasporti, dall’import export di prodotti alimentari al turismo.
È una ‘ndrangheta sempre più imprenditrice, che non si limita a esercitare le estorsioni e l’usura o taglieggiare imprenditori e commercianti in una logica parassitaria ma si è affermata con la gestione diretta delle attività economiche. E c’è la capacità di inquinare non solo il sistema economico privato ma soprattutto la pubblica amministrazione. Grazie alla rete di relazioni consolidate con esponenti della politica, delle istituzioni e delle professioni, le cosche - sia attraverso prestanome sia con imprenditori e professionisti di riferimento – sono riusciti ad aggiudicarsi importanti pubblici appalti, imporre le proprie ditte e la propria manovalanza nei sub-appalti. Un modus operandi che spesso non ha avuto bisogno di ricorrere alla violenza ma che trovava nella convergenza di interessi con ampi settori della classe dirigente locale e regionale una leva per mantenere potere e consenso e garantire l’impunità delle cosche.
Nel distretto giudiziario di Catanzaro, che comprende anche le province di Cosenza, Crotone e Vibo Valentia, le ‘ndrine si muovono con altrettanto cinismo e aggressività, e dove primeggiano le famiglie Grande Aracri di Cutro e i Mancuso di Limbadi con importanti proiezioni nell’Italia settentrionale e all’estero. E si è affermato il modello imprenditoriale, con le cosche che allargano il proprio raggio d’azione nel campo delle energie rinnovabili, della depurazione delle acque e nell’assistenza ai migranti. Il mondo delle professioni è decisivo per assicurare il radicamento e l’espansione delle attività criminali.
Non è esagerato dire che non c’è professione che sia rimasta impermeabile alla penetrazione mafiosa: commercialisti, notai, ingegneri, medici, avvocati si sono messi al servizio delle cosche nei contesti più diversi, compresa la delicata funzione di amministrazione di beni sequestrati e confiscati alle cosche e purtroppo non sono rimaste immuni né la magistratura né le forze dell’ordine.
Adesso la parola passa ai giudici e i calabresi possono sperare in una rinascita.