Le immagini proposte dal museo posseggono la forza di farci percepire, senza mostrarcela direttamente, l'enormità della Shoah. E attraverso l'account social è nata una comunità transnazionale

Da alcuni anni, il memoriale e museo Auschwitz-Birkenau, attraverso il suo account Twitter Auschwitz Memorial @AuschwitzMuseum, propone quotidianamente a chi lo segue (ormai più di un milione di follower) il ricordo di internati di Auschwitz nati in quel giorno: qualche cenno biografico, la data della deportazione, il loro destino e la foto. Di coloro che furono registrati nel campo spesso mostra le foto 'segnaletiche' fatte dagli stessi tedeschi; in prevalenza si tratta di polacchi non ebrei e quelle foto riguardano il periodo sino a tutto il 1942, inizio 1943.

I polacchi imprigionati ad Auschwitz, sin dal 1940, furono circa 150mila e la metà di loro vi trovò la morte. Dal 1941 giunsero a migliaia anche soldati dell'Armata Rossa. Di loro nei 'tweet ricordo' non vi sono immagini, non erano fotografati. La loro permanenza nel campo, fatta di indicibili sofferenze inflitte dal personale nazista, nella più completa (ma questo è noto) disattesa delle convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra, era perlopiù breve, concludendosi con la morte. Fu su di loro, come lo stesso comandante di Auschwitz-Birkenau Rudolf Höss spiegò dettagliatamente nelle sue stranianti memorie scritte in carcere a Cracovia, in attesa dell'impiccagione (che avvenne a pochi passi dalla casa ai limiti del campo I, Auschwitz, dove aveva condotto la sua 'normale' vita insieme alla famiglia), che fu sperimentato, nel blocco 11, lo Zyklon B. Nemmeno dei Rom e dei Sinti, più di ventimila giunsero ad Auschwitz e vi morirono, vi sono le foto del campo. Nel 1943, anno dei loro primi arrivi, ormai non si scattavano più foto. L'anno prima Auschwitz-Birkenau aveva infine definitivamente assunto – pur non perdendo la propria natura di campo di concentramento e di lavoro (a differenza di altri campi minori sempre situati in Polonia e concepiti essenzialmente per lo sterminio degli ebrei polacchi: Chelmo, Belzec, Sobibor) – la orrifica e criminale funzione per la quale è noto: fabbrica per l'annientamento degli ebrei europei.

Ad Auschwitz e a Birkenau morirono un milione di ebrei di ogni parte dell'Europa occupata dal Terzo Reich. La timeline twitter dell'Auschwitz Museum ce ne mostra ogni giorni i volti: olandesi, francesi, cechi, polacchi, austriaci, italiani, tedeschi, ungheresi; ebrei europei. Perlopiù i loro volti ci parlano dal mondo di prima, un mondo che ancora non era stato travolto. Fratellini sorridenti, coppie di sposi, giovani vestite elegantemente, bambini e bambine, anziani, adolescenti, neonati. Volti nei quali capita talvolta di ravvisare una somiglianza con un parente o un amico, talvolta con sé stessi. Molti di loro non passarono per la registrazione, passarono subito per il gas. Talvolta, come accadeva verso la fine, quando il numero degli arrivi era tale da sovrastare la capacità di funzionamento dell'ingranaggio della morte, dopo una sosta seduti sul prato vicino ai forni, ignari, famiglie, bambini, vecchi.


Le immagini dei prigionieri registrati, con le divise a righe, le teste rasate, ci fanno immaginare i sentimenti di paura, spaesamento, umiliazione che dovevano attraversare la mente e il corpo di quelle donne e quegli uomini in quei momenti. Ma i volti che ci parlano dal mondo di prima ci dicono senza pietà: io ero come te, come il figlio che hai appena partorito, come la madre alla quale dedichi tante attenzioni, come il padre che ti ha condotto per mano, come il fratello e la sorella con i quali sei cresciuto, come il compagno o la compagna così prezioso per la tua vita, come il bambino che stai crescendo. Poi, un giorno, l'incubo, l'inimmaginabile. Come è potuto accadere?

Ecco, quelle immagini posseggono la forza di farci percepire, senza mostrarcela direttamente, l'enormità della Shoah. Soffermandoci su di esse e immaginando anche solo per un istante la vita che vi è raffigurata, leggendo quei nomi sconosciuti onoriamo la memoria di chi si voleva non solo morto, ma anche non ricordato, come se mai fosse vissuto. Al tempo stesso compiamo il primo passo per gettare uno sguardo sull'abisso. La comunità che segue l'account dell'Auschwitz Museum si fa domande, chiede, risponde, interagisce, gli stessi responsabili del museo replicano e spiegano. E c'è chi propone riflessioni su ieri, su oggi.

Ma lo sguardo continuo su chi fu spazzato via dall'ossessione nazista rende anche concrete le vittime. E allora può cambiare la percezione dell'epocale e immensamente tragico evento. Volti e storie, vite concrete, normali. Non un concetto: le vittime, gli agnelli sacrificali. Donne e uomini, con sorrisi simpatici o espressioni antipatiche. E gli 'altri'? Alla community che segue l'Auschwitz Museum sono talvolta anche mostrate le immagini dei 'carnefici': ufficiali di Auschwitz, guardie, personale di vario tipo: donne e uomini. Che ridono, scherzano, si riposano. Esseri umani. Che fanno qualcosa che appare disumano: vivono una normalità a fianco dell'orrore al quale loro stessi contribuiscono. Ma che significa disumano se parliamo di cose fatte da uomini?

Ecco, pensare la Shoah non come una categoria metafisica, ma come un evento umano, avere percezione che dietro a tutto vi erano uomini che subirono, altri che si ribellarono, altri che definirono e vollero attuare il progetto genocidario o che volontariamente si misero al suo servizio, altri che collaborarono per opportunismo o pavidità o si girarono dall'altra parte, altri che semplicemente decisero di non pensare, mette di fronte a una terribile realtà: non conosciamo i confini di ciò che l'uomo è capace di fare, in quanto uomo.

Lo scrittore, filosofo, intellettuale francese Georges Bataille, fondatore della rivista Critique, in una recensione del 1948 all'opera dello scrittore e saggista David Rousset – resistente, sopravvissuto a diversi campi e infine a Buchenwald – Les Jours de notre mort, scriveva: «Esiste, in certe forme di condanna morale, una sorta di negazione che è una fuga. Si dice, fondamentalmente, questa abiezione non avrebbe potuto aver luogo, se non fossero stati dei mostri. In questo giudizio così duro, si sottraggono i mostri dall'ambito del possibile. Implicitamente li si accusa di avere ecceduto i limiti del possibile invece di rendersi conto che i loro eccessi, precisamente, definiscono quei limiti». E a questo potremmo aggiungere, ricordando ciò che ci ha insegnato Hannah Arendt della logica totalitaria, che quei limiti furono spostati oltre l'immaginabile grazie a comportamenti che sappiamo essere degli uomini di sempre, del passato e del presente, volti ad evitare pericoli, seccature, danni, o a ricercare piccole o grandi opportunità. E fatti silenziando coscienza e conoscenza. Comportamenti che resero agli occhi di chi sfidava i limiti normalmente concepiti come tali meno estremo l'atto di valicarli.

Ricondurre l'orrore alle umane possibilità rende possibile comprendere ciò che gli consente di manifestarsi e prendere forma. Non costringerlo in categorie metafisiche consente di indagare quelle umane produzioni e stupidità – le ideologie, le narrazioni, le superstizioni, i conformismi, le ottusità organizzative, la violenza e le concessioni alla violenza, l'opportunismo, e ancora, ancora, ancora – che fanno esondare in ciò che appare disumano, ma rimane tragicamente umano.

Ho attribuito troppo al racconto quotidiano della Shoah offerto da un semplice account Twitter? Sì e no. Ognuno può interpretarlo a seconda delle proprie sensibilità e diverse attitudini alla conoscenza. Ma vi è un metodo che merita considerazione: tenere costantemente vivi non solo il ricordo, ma anche l'attenzione, attraverso la concretezza dell'umano. La concretezza dell'umano che, ad esempio, attraversa le incredibili, angoscianti, affascinanti dieci ore del documentario di Claude Lanzmann, Shoah, una pietra miliare per chi vuole comprendere cosa fu lo sterminio degli ebrei d'Europa. O l'intervista che lo stesso Lanzmann fece a Benjamin Murmelstein, rabbino di Vienna e poi ultimo capo del Consiglio Ebraico di Theresienstadt (Le dernier des injustes). O ancora la ricostruzione dei meccanismi, tanto razionali quanto improvvisati, caotici e competitivi, che annientarono l'esistenza di milioni di essere umani, magistralmente descritti nel volume di Laurence Rees, Auschwitz. La concretezza dell'umano solo la consapevolezza della quale offre gli strumenti per evitare che mediocrità, sfrenate ambizioni, debolezze caratteriali, mitomania e megalomania, scarsa empatia, invidia e frustrazione, credulità, viltà, narcisismo e opportunismo – e potremmo continuare in questa elencazione – possano trovare la loro strada verso il potere e creare ciò che chiamiamo mostri e mostruosità, illudendoci che non appartengano alla natura umana. Anche un account Twitter e la community transnazionale che ha creato – perlomeno questo è ciò che credo – possono contribuire. Come ogni altro apporto che produca una riflessione continua e profonda a partire da ciò che è stato e come è stato. Necessario presupposto della consapevolezza.