La proposta della Commissione di Bruxelles è un primo passo nella direzione giusta. Ma è ancora troppo vaga nel definire i contenuti illegali

Nel 2018, il Financial Times sceglieva come parola dell’anno “techlash”. Era l’anno di Cambridge Analytica e il neologismo indicava «una reazione negativa al crescente potere e influenza delle grandi aziende della Silicon Valley».

Da allora, le cosiddette Big Five - Amazon, Apple, Google, Facebook e Microsoft - sono spesso entrate nel mirino dei legislatori. Ma nonostante i numerosi tentativi di regolamentazione, governi e istituzioni continuano a ripetere gli stessi errori.

È successo per norme in vigore da qualche anno come la NetzDG tedesca o disegni di legge attualmente in discussione - come l’Online Safety Bill britannica o il progetto di legge canadese sui pericoli online, criticati duramente per le loro fallacie. E rischia di succedere anche con la Commissione europea.

 

Fiore all’occhiello della politica tecnologica di Ursula von der Leyen, nel dicembre 2020 la Commissione ha pubblicato la proposta di legge sui servizi digitali (Digital Services Act, Dsa), che mira a regolamentare la diffusione online di contenuti illeciti, dall’hate speech alla disinformazione, armonizzando le regole sulla fornitura di servizi digitali in tutto il blocco Ue.

Nonostante il Dsa sembri avere poco interesse a scalfire il cuore dell’economia della sorveglianza, cioè la profilazione di utenti tramite pubblicità personalizzate, sotto certi aspetti si sta muovendo in modo molto più informato di altri progetti di legge discussi nell’ultimo anno. Il Dsa chiede alle piattaforme maggiore trasparenza sulla moderazione dei contenuti sotto forma di report annuali e l’obbligo di comunicare agli utenti il motivo per cui un loro contenuto sia stato rimosso. Se approvato, chiederebbe inoltre alle piattaforme di adottare misure per proteggere i propri sistemi da usi impropri, obbligandoli a rimuovere contenuti illeciti e a sospendere i servizi per gli utenti che ne abusano.

Emerge qui un pericolo per la libertà d’espressione online più sottile della generica “censura” sventolata spesso dalla destra. Se infatti è ancora aperta la discussione sul bilanciamento legittimo tra libertà di parola e sicurezza degli utenti, ci sono altre questioni su cui gli esperti sono d’accordo.

Una di queste è che i legislatori dovrebbero essere più precisi nel definire quali contenuti considerare illegali. La seconda è che ritenere le aziende direttamente responsabili di quello che ogni singolo utente scrive sulle loro piattaforme social è un terreno scivoloso che porta quasi sempre le compagnie a rimuovere troppi contenuti. Questo perché, come spiega Daphne Keller del Stanford Cyber Policy Center, «il passo meno rischioso» per un social a cui venga chiesto di rimuovere un contenuto è di farlo senza mettere in dubbio la validità della richiesta. Se da una parte responsabilizzare i social sembra una buona idea, dall’altra leggi mal scritte li porterebbero a censurare anche contenuti leciti e necessari, come denunce antirazziste e testimonianze in zone di guerra.

Entrambi i problemi si trovano nel Dsa. Da una parte, il think tank Centro Politiche Europee ha sottolineato che il linguaggio del Dsa è troppo vago: al suo interno, ad esempio, si ritrova l'obbligo da parte dei provider di bloccare utenti che «frequentemente» e «palesemente» pubblicano contenuti illegali, mitigando così non meglio definiti «rischi sistemici». Dall’altra, un emendamento appena approvato dal Parlamento europeo vorrebbe rendere le piattaforme responsabili di ciò che gli utenti ci scrivono sopra.

Per soddisfare le richieste del Dsa ed evitare ripercussioni legali le piattaforme dovrebbero monitorare le comunicazioni tra utenti o filtrare i contenuti nel momento in cui vengono caricati, intensificando ulteriormente le attività di sorveglianza. Per questo, scrive l’Electronic Freedom Foundation, «dovrebbero essere respinte tutte le proposte che comportano miopi rimozioni di contenuti legittimi. Così vengono meno le tutele dei diritti fondamentali ai sensi della Carta dell'Ue e della giurisprudenza della Corte di giustizia».

Nonostante si candidi ad essere il quadro normativo più dettagliato al mondo per quanto riguarda la regolamentazione dello spazio digitale, il Dsa ha molta strada da fare per quanto riguarda l’effettiva protezione dei diritti digitali dei cittadini europei.