Saranno fino a 250 milioni entro il 2050 in tutto il mondo. Persone costrette a lasciare case e terre a causa del cambiamento climatico. E anche nel nostro Paese il fenomeno sta contribuendo a spopolare le aree interne

Il rumore delle pietre era assordante. Battevano l’una contro l’altra, trascinate dalla forza del torrente. Ha piovuto per tre giorni e tre notti a Rajù, frazione del comune di Fondachelli Fantina, borgo del Messinese che dopo l’alluvione del 1972 è rimasto silenzioso, disabitato. Nessuno dei residenti poteva scappare. Ai lati del borgo, due ruscelli ingrossati impedivano il passaggio. Davanti, il torrente Fantina zeppo di fango e di quei grossi sassi che colpendosi facevano lo stesso chiasso di dieci aerei in partenza. Alle spalle, una frana dalla montagna aveva distrutto un paio di case dopo 24 ore di pioggia. Sono morte quattro persone, ferite altre. Terrorizzati, senza dormire né mangiare, gli abitanti di Rajù si sono riuniti in poche abitazioni, per condividere, come erano soliti fare, le scelte e i momenti più importanti.

«Pregavamo, aspettavamo. Senza sonno né cibo, avevo un fortissimo dolore alla testa. Mi sono rassegnato alla morte». A parlare è Giovanni Furnari, oggi in pensione, allora un ventiseienne geometra freelance appena sposato, nato e fino a quel momento vissuto a borgo Rajù.

 

«Dopo giorni di pioggia incessante, il 2 gennaio del ’73, è tornato il sole. Ce ne siamo andati tutti, senza nessuna ordinanza: eravamo d’accordo. A piedi nel fango. Sono arrivato a Barcellona Pozzo di Gotto, lontana 30 km. Qui dove vivo tutt’ora». Neanche dieci volte in cinquant’anni Furnari è tornato nell’abitazione di Rajù perché fa troppo male vedere il paese così desolato, distrutto dal torrente che continua ad alzarsi inghiottendo le case. Perché tornano forte il dolore alla testa, la sensazione di morte, le lacrime agli occhi. Così si sente chi ha dovuto lasciare la propria casa senza averlo deciso e senza la possibilità di tornare.

 

Civitacampomarano


I migranti ambientali, persone che a causa di catastrofi naturali, uragani, inondazioni, tempeste, siccità, terremoti, sono costrette ad abbandonare la propria terra, saranno fino a 250 milioni entro il 2050, secondo l’Unhcr. Non si tratta di migrazioni transfrontaliere di massa ma di piccoli sfollamenti, spesso per poche decine di chilometri, che rendono le persone vulnerabili fino a privarle, in alcuni casi, dei diritti fondamentali. Non esiste una definizione legale chiara di migrante ambientale, sono una parte degli sfollati interni totali che secondo il Global Report on Internal Displacement hanno raggiunto i 55 milioni nel 2020 e sono costati 20,5 miliardi di dollari.

 

«Il cambiamento climatico è sempre trattato come materia scientifica ma è anche un problema socio-economico che intacca sia la sfera sanitaria sia quella dei diritti», spiega Serena Giacomin, climatologa e presidente dell’Italian Climate Network. «Un singolo evento meteo non stabilisce una tendenza climatica ma il loro schizofrenico susseguirsi sì. Nel bacino del Mediterraneo abbiamo a che fare con un’estremizzazione: ondate durature di caldo estremo si alternano a momenti di freddo meno frequenti, ma più intensi».

 

Per Giacomin questo stressa il territorio causando problemi alle persone che lo occupano. Le azioni per mitigare l’impatto del cambiamento climatico, che trasforma la produttività e la resistenza delle aree, sono costante oggetto di studio del Consiglio nazionale dei geologi. «Nel momento in cui un territorio non ti dà più risorse idriche, terreni fertili, ti mette in difficoltà con eventi inaspettati come i 48,8 gradi di quest’estate nel Siracusano, ecco che gli insediamenti umani si devono spostare».

 

Così è successo a Cavallerizzo di Cerzeto, un piccolo centro calabro-albanese, in provincia di Cosenza, franato nella notte tra il 6 e il 7 marzo del 2005, sotto una pioggia che non dava tregua. Vito Teti, antropologo e scrittore, ha documentato la tragedia da quando è accaduta a oggi: «Ogni giorno Domenico Golemme misurava con una corda l’ampliarsi della frana. Quando Golemme, detto Burithi, la talpa in arbëreshe, (la lingua parlata dalla minoranza albanese d’Italia, ndr) si accorse che la crepa portava verso il crollo era notte e diede l’allarme. Suonarono le campane, i citofoni, i telefoni, così tutti gli abitanti riuscirono a scappare in tempo». Secondo Teti, il disboscamento incontrollato, le nuove costruzioni in cemento armato, l’incuria, le strade che si spaccavano, le case che si abbassavano, erano tutte avvisi rimasti inascoltati di una catastrofe prevedibile che ha messo in fuga una comunità.

 

La vista dei boschi della Piana di Marcesina nell’Altipiano di Asiago (Vicenza)

La maggior parte dei residenti avrebbe voluto ricostruire Cavallerizzo dov’era ma, a causa dell’inagibilità dichiarata nonostante solo una parte della frazione fosse stata colpita dalla frana, nel 2011 iniziò la consegna degli alloggi della New Town, distante qualche centinaio di metri. Oggi la vecchia Cavallerizzo è vuota, «perfino i cavi dell’energia elettrica si sono portati via», racconta Carlo Calabria, un geologo che vi abitava ma che ora vive in Sicilia, mentre la nuova Cavallerizzo si sta gradualmente spopolando perché «non c’è più un luogo fisico comune a tutti dove potersi incontrare, ci sono solo una serie di case tutte uguali».

 

Secondo il rapporto sul territorio del 2020 dell’Istat, ci sono 250 mila persone in meno rispetto al 2014 che vivono nelle aree interne, cioè in zone distanti dall’offerta di servizi essenziali, tipicamente di montagna o di collina, complice anche l’indice di vecchiaia superiore alla media nazionale. Per l’Anci, l’associazione nazionale comuni italiani, sono soprattutto i borghi che contano meno di 5 mila abitanti a spopolarsi: almeno un migliaio ha perso il 50 per cento dei residenti, alcuni fino all’80 per cento. Oltre alla mancanza di servizi, lavoro e opportunità, concorre allo spopolamento anche il rischio di dissesto idrogeologico. «Il 91,3 per cento dei comuni italiani è in pericolo. Nel 2021 ci sono stati 1600 eventi estremi, il doppio rispetto all’anno precedente. In tre ore viene giù tutta la pioggia che è mancata per mesi. Questo danneggia sia l’agricoltura sia il territorio, accrescendo il rischio di frane e alluvioni», spiega Lorenzo Bazzana di Coldiretti. Perché, come chiarisce Bazzana, le gelate ci sono sempre state ma ora arrivano quando non te le aspetti, alla fine del periodo invernale quando le colture hanno ripreso a crescere, danneggiandole.

 

Inverni non troppo freddi ed estati siccitose hanno favorito anche la diffusione degli insetti, come il bostrico, un piccolo coleottero che si nutre del legno degli abeti rossi, soprattutto dei più deboli, che ha trovato nelle aree colpite nel 2018 dalla tempesta Vaia il territorio giusto per la proliferazione. «Gli alberi già fragili per la mancanza d’acqua sono caduti sotto i colpi del vento che ha raggiunto i 120 chilometri orari. Il terreno non era pronto per assorbire una tale quantità di pioggia. Un vero e proprio tifone si è originato dalla differenza di temperatura di 30 gradi tra il versante nord e il versante sud delle Alpi, quando la difformità di solito è di cinque o sei gradi. Vaia ha distrutto oltre 42 mila ettari di bosco. Non era mai stato registrato niente di simile da quando abbiamo la strumentazione, dalla fine del ‘700», spiega Diego Cason, sociologo di Belluno. Il tifone oltre ad aver causato la morte di otto persone, danni per quasi tre miliardi di euro, colpito 494 comuni tra le Prealpi venete e le Dolomiti, parte del Trentino Alto-Adige, della Lombardia e del Friuli, sta causando gravi difficoltà economiche alle comunità locali che dalla vendita del legno, il cui prezzo è diminuito dopo la tempesta vista la grande quantità immessa sul mercato, ricavano profitti da investire nella tutela delle infrastrutture e del territorio. E se adesso è ancora troppo presto per parlare di spopolamento, resta vivido il ricordo dell’alluvione del 1966 che colpì duramente le stesse aree e portò all’abbandono di tanti piccoli borghi.

 

«È un meccanismo infernale: lo spopolamento porta abbandono e incuria dei territori che a loro volta accrescono il pericolo di dissesto idrogeologico, che provoca spopolamento». Raffaele Giannone è un ingegnere di Civitacampomarano, comune di 351 abitanti in provincia di Campobasso, colpito da una frana nel 2017, un anno di precipitazioni eccezionali. Giannone ha dovuto lasciare la casa, che era la stessa in cui più di duecento anni fa visse il militare e letterato molisano Gabriele Pepe. «Oggi abbandonata, con le finestre che sbattono al vento, perché nessuno se ne occupa».

 

Sono passati più di cinque anni dal giorno in cui Civitacampomarano, che giace su uno sperone di roccia, non su un terreno franoso, si è spaccata. La zona rossa è rimasta tale. Gli abitanti, che ora vivono nelle campagne e nei paesi limitrofi continuano a pagare le imposte, seppur ridotte del 50 per cento, su abitazioni a cui non accedono più. «Nell’Italia del 2021 che si riempie la bocca di diritti e democrazia succedono ancora queste cose. Le persone che sono migrate non torneranno perché il tempo è una goccia che cava la pietra e chi è andato via costruirà la propria vita altrove». La gente è fatta di storia, radici, ricordi, cultura, famiglia, tradizione, perdere i piccoli borghi d’Italia significa perdere l’identità.

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