Gli eventi meteo estremi e frequenti spingono le persone a spostarsi in cerca di zone più sicure. Un fenomeno che interessa ora anche i Paesi ricchi. Che faticano a vederne le radici climatiche

L'emergenza arriverà, sta arrivando, forse è già qui, anche se nessuno ne parla. I «migranti climatici», persone costrette dalle conseguenze del riscaldamento globale a lasciare la zona in cui pensavano di vivere per sempre, sono tra noi: nel senso che sono anche «migranti interni» dei Paesi ricchi. Gli addetti ai lavori se ne sono accorti da tempo: libri, saggi, ricerche si accumulano, da “Migrare in casa” di Virginia Della Sala (Edizioni Ambiente) allo studio pubblicato lo scorso ottobre dalla Bocconi che analizza l’influenza della siccità sulle migrazioni nel mondo, area mediterranea compresa. 

 

Però, come Massimo Troisi in “Ricomincio da tre”, sono per primi i diretti interessati a rifiutare la definizione: «Secondo una ricerca dell’Onu, confermata dalle nostre interviste sul campo, coloro che sono stati costretti a emigrare a causa di un evento climatico estremo sottovalutano il peso del fattore ambientale nelle loro scelte», si leggeva già qualche anno fa in una lunga inchiesta di Euronews sulle conseguenze dei disastri climatici. Cioè di quegli «eventi estremi che hanno causato sfollamenti» anche in Paesi come Francia, Germania, Spagna e che «in Europa sono più che raddoppiati tra il 2016 e il 2019, passando da 43 a 100».

 

Quando si pensa a un «migrante climatico» si pensa al Bangladesh, non a Ravenna. Si pensa al Sahara flagellato da piogge straordinarie, ma inutili a fermare la desertificazione, non ai paesi dell’Appennino dove basta un inverno senza neve a far chiudere le attività aperte dai più giovani e a spingere questi ultimi a cercare fortuna verso il mare. Lì, però, l’industria del turismo fa i conti con un caldo estivo da record che spinge le vacanze degli italiani verso il Nord Europa e allontana gli stranieri. Ricordate la stroncatura del ministro della Sanità tedesco, Karl Lauterbach? Paesi come l’Italia «non hanno un futuro come destinazioni turistiche» e «il cambiamento climatico sta distruggendo l’Europa meridionale», scrisse scioccato dalle temperature del luglio 2023: ma il luglio di quest’anno è stato ancora più caldo.

 

La chiusura di qualche negozio in una località sciistica dell’Abruzzo o di un’agenzia di gestione di affitti in un Salento dalle acque sempre più calde passano sotto silenzio. Ma ha fatto scalpore l’allarme del presidente di Confindustria Romagna, Roberto Bozzi, dopo che per la terza volta in poco più di un anno l’alluvione ha costretto le aziende a lunghe chiusure, mentre gli operai combattevano con l’acqua in casa. «Ho visto i nostri dipendenti disperati, vogliono fuggire da qui perché un’altra volta nell’arco di poco tempo le loro abitazioni sono state danneggiate e devono ricominciare da zero». E ha aggiunto: «Al ritmo delle alluvioni del 2023 e del 2024, in dieci anni avremo altri sei o sette eventi calamitosi: chi resterebbe su queste terre a lavorare o a vivere?». 

 

Industriali, sindaci e comitati di cittadini sono concordi nel chiedere opere straordinarie per la prevenzione e una manutenzione accurata di argini e torrenti, ma con precipitazioni che ogni anno segnano nuovi record – a Valencia nei giorni del recente disastro è caduta in otto ore la pioggia di un anno – prevenire le alluvioni è particolarmente difficile. «Politici e cittadini non si rendono conto che, dal momento che dobbiamo aspettarci altre inondazioni ancora più grandi, quando si ricostruiscono le cose com’erano prima non si proteggono le popolazioni dagli impatti futuri», ha detto a Euronews un climatologo dell’Università di Belgrado.

 

Chi si occupa di vendite immobiliari nelle zone colpite dalle recenti alluvioni – oltre alla Romagna, Toscana e Marche – parla di valori di mercato scesi del 25 per cento e di una richiesta concentrata sui piani alti. Chi può, però, ormai cerca casa altrove e all’andamento dei prezzi si intrecciano spinte collegabili a cambiamento climatico ed emissioni fossili, con l’inquinamento atmosferico che incide sulle malattie respiratorie dei più deboli e il caldo delle città (dove la temperatura media cresce del 4 per cento e aumentano le «notti tropicali», cioè sopra i 20 gradi). 

 

A descrivere il fenomeno è Filippo Tantillo, nel suo “L’Italia vuota. Viaggio nelle aree interne” (Laterza): «Chi non compra più casa a Bologna, ma sulla colline, non pensa di farlo perché il clima è cambiato; lo fa soprattutto perché costa meno. E comunque le famiglie si allontanano poco: la città resta gravitazionale». Non è solo una scelta di vita di ambientalisti di successo, come lo scrittore Paolo Cognetti e il climatologo Luca Mercalli: la tendenza è abbastanza diffusa da essersi meritata un saggio (“Migrazioni verticali” dell’associazione Riabitare l’Italia, edito da Donzelli), la definizione di «metromontagna» e il monitoraggio costante del Progetto MiCliMi.

 

Il problema è globale: l’economista americano Jeremy Rifkin nel suo recente “Pianeta acqua” (Mondadori) segnala un «incipiente neonomadismo» globale causato dal riscaldamento del clima. Negli Usa è stato fatto un calcolo esatto di quanti nei prossimi anni, a poco a poco, si sposteranno da Florida e California alla regione dei Grandi Laghi. E le metropoli locali si stanno preparando. La ricerca della Bocconi, diretta dal capo del Green Research Center, Marco Percoco, spiega invece che il cambiamento climatico coinvolge all’inizio «i giovani adulti, soprattutto quelli con un’istruzione superiore», ma poi – solo nei Paesi ricchi – mette in moto anche gli anziani, che «mostrano una sorprendente tendenza a reagire ai cambiamenti del clima». 

 

Aumenta il successo di siti di intermediazione immobiliare, come Zillow, che calcolano il valore immobiliare di una casa in base ai rischi climatici: alluvioni, ma anche incendi che, pur risparmiando gli edifici, costringono alla fuga perché rendono l’aria irrespirabile. Prevede solo le inondazioni, invece, Flood Hub, piattaforma di Google che calcola quando e dove si prevedono tali calamità. Buone notizie per noi: al momento in cui scriviamo, l’unica allerta segnalata in Europa riguarda un fiordo della Norvegia centrale. E comunque è un’allerta gialla.